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Eccoci alla seconda puntata delle avventure di Giuseppe Schiavon a Cinquefrondi. Il falegname veneto, che un giorno sarebbe diventato sindaco di Padova, da giovane fu spedito dal fascismo in esilio nel nostro paese. Sta così bene nella comunità cinquefrondese che si fa raggiungere perfino da moglie e figli. Nel suo lungo diario è tutto un parlare di Cinquefrondi e dei suoi cittadini, con aneddoti e storielle spesso sconosciute o ormai dimenticate perfino dagli stessi paesani.
La sua storia cincrundisa però finisce male, come ci racconta Francesco Tropeano nell’articolo che segue. In ogni caso, Schiavon trae spunti positivi e perfino divertenti e allegri anche dalle circostanze non sempre positive nelle quali si trova coinvolto, anche a causa della sua scarsa prudenza, e questo ce lo fa apprezzare ancora di più per la sua umanità. Buona lettura a tutti
di Francesco Tropeano
Il confino è stata una misura di prevenzione repressiva utilizzata per allontanare dal suo ambiente “naturale” un soggetto ritenuto pericoloso per l’ordine pubblico, ed isolarlo in una località remota sotto il controllo degli organi di polizia, secondo la convinzione (sbagliata in tutti i sensi ) che in tal modo lo si rendesse inoffensivo per il resto della società e si potessero prevenirne eventuali attività considerate come criminali.
Sebbene le sue origini giuridiche risalgono al periodo liberale, l’utilizzo del confino è legato soprattutto al regime fascista, che modificando l’impostazione iniziale lo utilizzò ampiamente, a partire dal 1926, come misura di repressione del dissenso politico e sociale. Nel corso del ventennio, in maniera spesso arbitraria, furono circa 18 mila gli antifascisti – e non solo – condannati a vivere isolati dal resto della società, lontani dalle proprie famiglie e dai propri ambienti di appartenenza.
Il confino fascista fu una delle armi “silenziose” del regime per puntellare la dittatura, oltre che un ulteriore colpo allo Stato di diritto, visto il suo presupposto di detenere degli individui senza una vera imputazione e un giusto processo.
Con le cronache di Schiavon, che sarà il primo sindaco di Padova dopo la Liberazione (comunque, insieme a Cesare Pavese uno dei più autorevoli confinati in Calabria), abbiamo già conosciuto tutta una serie di confinati che popolavano in quegli anni Cinquefrondi. Dal suo coinquilino operaio milanese, a Calogero Diana, a Giuseppe Silvestri, a Domenico Capodiferro. Ma ce ne sono stati altri che nei suoi diari non nomina direttamente come il farmacista Giuseppe Intorrella e lo studente universitario, poi professore, Paolo Arena.
In tutto i confinati politici a Cinquefrondi furono almeno sedici. Di molti abbiamo brevi biografie tratte dagli archivi di polizia. Paolo Arena, nato a Palermo l’11 ottobre 1911, è il soggetto che ha la più lunga biografia perché indagarono su di lui sia la Questura di Palermo che l’ispettorato generale dell’OVRA di Bologna. Ma a noi interessa soprattutto sapere che fu condannato al confino nel 1935 e dopo pochi mesi di permanenza a Ventotene, arrivò a Cinquefrondi. E proprio durante la sua permanenza a Cinquefrondi portò all’altare una giovane nostra paesana, poco prima del 9 luglio 1936, quando la sua condanna al confino fu tramutata in ammonizione.
Di questi 16 confinati, almeno una dozzina erano comunisti e, visti gli stretti rapporti che molti di loro avevano con la popolazione ed il conseguente lavorìo propagandistico più o meno sotterraneo, ciò non poteva che comportare anche una modifica significativa della composizione politica della sinistra del tempo.
Se vogliamo capire le origini della preponderante egemonia comunista nei risultati elettorali del dopoguerra, dobbiamo certamente tenerne conto. Per tutti gli anni 20, la sinistra era pressoché rappresentata da una forte componente socialista ed anarchica, i comunisti erano pochi. Alla fine degli anni trenta la situazione è completamente cambiata. Molte botteghe artigiane diventano roccaforti comuniste, soprattutto le sartorie e i calzolai, propri i posti più frequentati dai confinati. Sarà un caso?
Ci eravamo lasciati con il nostro Schiavon arrestato per aver bevuto un caffè in quello che, per capirci, molti anni dopo sarà il bar di Silvio Ferraro in piazza. Viene portato immediatamente in carcere, presso il nostro carcere. “ Il mio arresto – scrive Schiavon – ha destato indignazione nella popolazione e il mattino appresso vi fu una protesta di fronte al carcere da parte di parecchie donne, ma il maresciallo e due carabinieri hanno messo a tacere ogni cosa” . Certamente Schiavon non era Rodolfo Valentino e le donne probabilmente erano soprattutto quelle, mogli e madri, che ogni mattina si recavano al suo banchetto del Rosario per farsi leggere le lettere dei congiunti emigrati.
“ I compagni detenuti con cui trascorrevo le mie giornate erano di ben altro tipo di quelli che ho conosciuto nelle carceri del settentrione. A Cinquefrondi erano quasi tutti in attesa di giudizio e per imputazioni leggere. Erano ansiosi di conoscere le cose del mondo. Così occupai il mio tempo a parlar loro di astronomia, di geografia e di politica. Ad un giovane che abitava in Aspromonte, e che sarebbe uscito a breve, gli avevo dato il consiglio di andare davanti al monumento eretto a Garibaldi e di scriverci sopra : il socialismo è il sol dell’avvenire. Egli accettò con grande entusiasmo”. La prudenza non è mai stato il forte di Schiavon e questo suo “consiglio”, fatto nell’ora d’aria, fu certamente sentito dagli agenti di custodia. Risultato: niente ora d’aria e cella d’isolamento! “Poco dopo -scrive ancora il futuro sindaco di Padova- mi portarono il pane della giornata e lo rifiutai, chiesi con insistenza di parlare col direttore, che in quel momento dissero che era assente, portarono la minestra ed io rifiutai”.
Non sappiamo se veramente il direttore del carcere fosse assente, certamente non era Giuliano Pittalis, che sarebbe arrivato a Cinquefrondi un anno dopo, nel 1938, proprio per dirigere il carcere. “ Allora chiesi penna e calamaio per scrivere al giudice di vigilanza, come prevedeva la legge. Il giudice venne il giorno dopo, verso mezzogiorno. Gli spiegai del sopruso ricevuto e giurai che non avrei toccato cibo finchè non mi avessero rimesso nella camerata dove ero stato prelevato”. Dopo alcune ore dalla visita del giudice, Schiavon fu riportato nella camerata comune con gli altri detenuti.
“Il mio processo si sarebbe dovuto svolgere nella Pretura di Cinquefrondi. Per tre volte, ben staccati l’uno dall’altro, feci richiesta a tre avvocati per avere loro assistenza in pretura. I primi due mi diedero la conferma, salvo notificarmi la rinuncia pochi giorni dopo. Il terzo avvocato rinunciò proprio il giorno di vigilia del processo. Al processo mi comportai come uno stupido, non preparato per niente, risposi a poche domande senza fare nessuna protesta e mi condannarono a 8 mesi di carcere”.
Secondo il futuro sindaco di Padova queste rinunce dei legali erano frutto della persecuzione mirata che i fascisti esercitavano nei suoi confronti e punta l’indice contro due persone in particolare, le solite : “Non escludo che a queste cattiverie nei miei confronti abbia contribuito il segretario fascista ed anche quel prete che incontrai nei primi giorni del mio arrivo a Cinquefrondi”.
Schiavon però ricorre in appello con l’aiuto di un avvocato consigliatogli da un compagno del paese. Dopo tre mesi dalla sentenza viene trasferito al carcere di Palmi accompagnato dal maresciallo e due carabinieri. Il viaggio si svolge in littorina e in treno. Il tragitto avviene in assoluto silenzio. Ma una cosa colpisce Schiavon “ il viaggio passò senza fare una sola parola con i miei custodi, solo nell’assicurarmi al carcere di Palmi il maresciallo volle stringermi la mano facendomi gli auguri per la sentenza”.
“ Il carcere di Palmi era uno dei più orribili e sporchi che abbia mai incontrato, vecchi e sporchi pagliericci e coperte, carico di cimici che non si poteva dormire la notte, carcerieri giovani fascisti e cattivi”. Schiavon aveva già conosciuto tante carceri italiane e può permettersi di stilare una vera e propria “top ten” degli orrori. Era stato carcerato finora a Padova, a Venezia, a Milano, a Roma, a Castelfranco Emilia, a Perugia, a Spoleto, a Reggio Calabria ed ovviamente a Cinquefrondi.
Nel carcere di Palmi conosce due fratelli malaticci “ sembravano due cadaveri”, di cui uno molto malandato e malgrado di giovane età non riusciva da settimane ad alzarsi dal letto. Erano in carcere per omicidio, ma aspettavano da sei mesi di essere liberati. Infatti il vero omicida, in punto di morte, aveva confessato. Ma questo ordine di scarcerazione tardava ad arrivare. Essendo poverissimi e con altrettanto poveri familiari, se fossero stati liberati avrebbero dovuto tornare a piedi al loro paese che distava diversi giorni di cammino oltre le montagne, verso l’altro versante. “ Presentandosi la possibilità di un loro rilascio da un giorno all’altro, chiesi un incontro al direttore del carcere per parlare della loro situazione, chiedendo di poter contribuire finanziariamente al loro eventuale viaggio di ritorno, perché certamente a piedi non sarebbero arrivati vivi. Proposi una piccola somma. Il direttore non si pronunciò, ma mi disse di fare una richiesta scritta alla direzione stessa” . La risposta sarà un secco no ed alla partenza di Schiavon, dopo il processo di appello che aveva ridotto la condanna da otto a 4 mesi, già quasi scontati, i due fratelli erano ancora là.
Ritratto di famiglia con capretta . Di ritorno a Cinquefrondi per scontare quei pochi giorni di carcere rimasti, l’illustre confinato fa fare a sua moglie la richiesta di ricongiungimento. Uscito di galera l’ 11 agosto 1937, riprende imperterrito la solita dolce vita paesana. “Dopo qualche mese del mio ritorno a Cinquefrondi, quasi tutte le domeniche, io ebbi in casa, dove già si trovava mia moglie, un cestino di frutta fattomi pervenire da parenti e amici dei due fratelli scarcerati e trovati a Palmi, con qualche bigliettino di riconoscimento per quel niente che potei fare!”
Così Schiavon si può sentire felice. Ora abita a Cinquefrondi con moglie e figli, finalmente, anche se Roberto, il maggiore dei figli (16 anni) dovrà quasi subito tornare a Padova per la possibilità di un lavoro. Rimane con la moglie e la figlia piccola. Il precedente coinquilino milanese è ancora in carcere, la casa è tutta per loro. Il reddito di cittadinanza fascista schizza alle stelle ( altro che governo Conte), ben 7 lire al giorno, 5 lire il capofamiglia, 150 cent la moglie, 50 cent la figlia. Per darsi un’ idea, è di quei tempi la famosa canzone: Se potessi avere mille lire al mese!
Un chilo di pane costava 1,80 lire, un litro di latte 1,20 lire, 10 sigarette 1,70 lire. Insomma con 7 lire c’era di che scialare! Ma Schiavon sa come arrangiarsi. Insieme a Calogero Diana, collega confinato e suo dirimpettaio, si danno da fare. “ Il compagno siciliano Diana abitava di fronte a noi con due bambini e concordammo di comperare una capra, cosa che riuscimmo a fare con non poche difficoltà, di tipo finanziario. Diana tenne la capra da lui, anche se la sua casa era molto piccola, ma era lui che la curava e mungeva il latte per i bambini. Io tenevo una coppia di colombi che ogni mese davano il suo frutto, covando un uovo di gallina. Così potei avere tante gallinelle di diversa età e grandezza. Avevo anche un piccione ammaestrato che si posava sulle mie spalle, sulla testa e quando mi vedeva scrivere si accovacciava sul tavolo per beccare di tanto in tanto la penna che si muoveva”.
“ Mio figlio mi venne a trovare, restò con noi qualche settimana e prese contatto con i giovani del paese e molto spesso prendevamo la via della montagna boscosa, anche con qualche paesano, portando con noi la merenda del mezzogiorno per tornare la sera. Quassù cantavamo i nostri inni rivoluzionari, l’internazionale, la marsigliese, a squarciagola e ci rincorrevamo per vedere chi era più veloce, in un’atmosfera di allegria!”
Schiavon non era abituato a questa serenità, e credeva di sognare . “ Sto bene? E’ finita la persecuzione?” Si chiede a questo punto del suo diario. E così facendo, ovviamente senza i dovuti scongiuri, se la chiama ( la sfiga). Si parte con la malattia della moglie. Una brutta broncopolmonite, il medico cinquefrondese che la cura ce la mette tutta per evitare il ricovero ospedaliero. Passano 20 giorni di apprensione e angoscia, ma lentamente, molto lentamente la moglie si riprende e può lasciare il letto e fare qualche piccolo lavoretto in casa. Neanche il tempo di tirare il classico sospiro di sollievo che un’altra tegola cade rovinosamente sulla testa di Schiavon.
Per chi suona la campanella? La moglie era ancora convalescente, era lui a cucinare : riso con patate, formaggio, olive, verdura. Era lui che accompagnava la figlia a scuola. Il tragitto era breve, via Villafranca, la discesa che i paesani chiamavano “ di li pugliani “ che poi era quella dove c’era l’orinatoio, un passaggio davanti alla famigerata pretura ed ecco già l’edificio scolastico con il suo cortile interno da cui si accedeva alle aule.
“ Mia figlia frequentava la scuola elementare, in classe trovò subito delle compagne con cui divenne amica. La sua maestra la seguiva con attenzione perché era la figlia del confinato. Vedendo che la bambina non frequentava la chiesa, consigliò a mia figlia di raccontarmi una bugia. Avrebbe dovuto dirmi che la domenica mattina sarebbe andata a casa di una sua compagna, la figlia di un maestro, ma non doveva dirmi che subito dopo sarebbe andata a messa”.
“ A casa mia nessuno sapeva raccontare le bugie e mi raccontò tutto, così la mattina seguente con la bambina andai dalla maestra. La scuola era in un edificio nuovo con tante classi, ben disposte con un grande corridoio al centro. Trovai la maestra e subito la richiamai dicendo che quello non era il modo di educare la scolaresca. Da qui si accese una lunga discussione, ma non sulle bugie, ma si allargò alla educazione dei bambini, al dovere degli insegnanti anche in regime fascista. Alla discussione presero parte molti insegnanti e toccò molto da vicino il tema del fascismo. Parlammo per quasi un’ora fino all’inizio delle lezioni. Io venni via molto soddisfatto. Così pensavo in quel momento”.
L’ormai proverbiale imprudenza di Schiavon aveva messo fine a quell’oasi di serenità che faticosamente si era costruito dopo l’uscita di galera. Questo episodio fece il giro del paese. Lui stesso ne chiarì alcuni passaggi, nel solito giro delle cento botteghe, con il fare un po’ guascone. Non ebbe nessun richiamo ufficiale, ma nel giro di qualche settimana arrivò tassativo l’ordine di trasferimento, direttamente dal Ministero dell’Interno. Destinazione : Gimigliano nella Sila catanzarese. Fu una doccia fredda. Cercò di prendere tempo, non potendo sfuggire a quell’ordinanza. Si aggrappò alla salute precaria della moglie, alla tenera età della bambina, al fatto che non aveva commesso alcun reato. Riuscì ad ottenere la dilazione di un mese giusto per la malattia della moglie. Il 3 gennaio 1939 dovrà lasciare per sempre Cinquefrondi.
L’ultimo Natale a Cinquefrondi. Eravamo ormai nelle festività natalizie, ma quei giorni non saranno gioiosi per il nostro confinato. Si incomincia a preparare per l’addio al nostro paese. “Certi del nostro trasferimento pensammo a liquidare le nostre scorte alimentari. Ad opera del Diana fu ammazzata la capra e fatti i salami con la sua carne. Lentamente mangiammo i colombi, anche quello che avevo ammaestrato, che mi faceva compagnia quando scrivevo, beccando la penna o saltandomi dalle spalle alla testa e le pollastrelle nate dalle covate dei colombi”
Schiavon chiede ai carabinieri di essere trasferito senza manette, per poter aiutare la moglie che si sorreggeva a malapena. “I carabinieri accettarono questa mia domanda inoltrandola al Ministero”. Con il morale a pezzi e certamente con qualche rimorso per certi suoi atteggiamenti, attende ormai il giorno sempre più vicino del suo trasferimento. Ovviamente sa già a chi addossare la colpa della sua partenza da Cinquefrondi. “ Il motivo del mio trasferimento era dovuto ai rapporti contro di me, che stilava il segretario del fascio. Ma ricordo pure quanto è avvenuto nella Scuola Elementare”.
Arriva così la mattina del 3 gennaio. “Partimmo di buon’ora. Con noi anche Giovanni di Faenza, un altro confinato molto anziano, anche lui senza manette. Una piccola carovana composta da cinque persone, una bambina e due valigie. Solo due carabinieri. Con la littorina arrivammo a Gioia Tauro, da qui con un treno arrivammo a Catanzaro per prendere ancora il treno per Cosenza. Nell’attesa del treno estrassi di tasca l’ultimo pulcino che era rimasto e lo lasciai beccare per terra la tenera erba che lo circondava. Con l’arrivo del treno lo rimisi in tasca. Così accompagnato da due carabinieri e senza manette perché dovevo sorreggere mia moglie malaticcia, con un pulcino in tasca ed assieme ad un altro confinato, con grande rammarico ho lasciato quel paese tanto ospitale sia da parte della popolazione che degli amici e dei compagni”.
Il viaggio si rivelerà molto più lungo del previsto, perché dovranno prima accompagnare il vecchio confinato alla sua destinazione in provincia di Cosenza e poi dirigersi verso Gimigliano. Mano a mano che il treno avanza iniziano a vedere la terra coperta di neve e quando arrivano al paese dove era destinato l’anziano confinato gli si presenta davanti un paesaggio freddo ed inospitale. La scena commovente del distacco sarà indimenticabile. “Giovanni mi abbracciò piangendo come un bambino dicendo : Giuseppe quassù morirò, io non ritornerò più a casa! Non avrei mai scordato quel suo stato di disperazione. Tentai di scrivergli, ma non ebbi risposta. La corrispondenza tra confinati era vietata” .
Arrivano a Gimigliano a notte inoltrata e trovano a malapena un cosiddetto alberghetto. Dovranno dormire in tre in un solo letto addirittura nella parte superiore di un letto a castello. Vi dormiranno tre notti prima di trovare un alloggio più umano. Ed il pensiero torna a Cinquefrondi.
“ Questo comune era ben diverso dall’altro, molto più retrivo, nessun artigiano, nessun indice di progresso come è avvenuto a Cinquefrondi, qui trovavi i maiali che camminavano da soli nel centro del paese e il legame con la popolazione avvenne difficilmente. Qui il numero dei confinati era molto più alto, ma di politici eravamo solo due. Mia moglie qui si trovava peggio che a Cinquefrondi colpita dalla bronchite per tutta la stagione invernale e dovette stare chiusa in casa”.
E ricorderà pure con nostalgia le sue passeggiate di propaganda politica, il discutere fitto con quegli artigiani, la sorpresa di trovare nella sartoria – biblioteca di Ferraro quei libri ideologici che non riusciva a trovare neanche a Padova. “ A Cinquefrondi i rapporti con le persone più evolute del paese erano costanti, trattando sempre problemi politici che voleva dire propaganda politica molto poco coperta, mi hanno dato finanche la possibilità di trovare il Manifesto dei Comunisti di Marx in una piccola libreria popolare”. Schiavon rimarrà a Gimigliano circa nove mesi prima di essere liberato, ma di questo tempo non racconterà nel suo diario nessun aneddoto, nessuna disavventura tragicomica, nessuna mangiata fuori dell’ordinario. Ma si sa Cinquefrondi è solo Cinquefrondi. Anche il veneto purosangue Giuseppe Schiavon l’aveva capito.
complimenti al Dottor Tropeano che ha riportato ,in modo molto dettagliato e con ricchezza di notizie, la storia di questo illustre confinato politico a Cinquefrondi al tempo del fascismo del quale ne parlo io nel saggio Novelle da Cinquefrondi. La vita al tempo del fascismo.
Grazie Aldo, ho raccontato questa storia perché, leggendo i diari di Schiavon, mi è sembrato il modo migliore per interpretare lo spirito del tempo e rimandare ai nostri occhi l’ immagine di Cinquefrondi di allora attraverso gli occhi di un forestiero che era capitato nel nostro paese certamente non per motivi turistici. Ho citato anche le tue “novelle” nella prima puntata dell’ articolo che trovi a questo link :
https://www.cinquefrondineltempo.it/1936-il-futuro-sindaco-di-padova-arriva-a-cinquefrondi-e-se-ne-innamora-malgrado-tutto/.
Approfitto di questo commento per un aggiornamento. In questi giorni sono riuscito ad identificare il vecchio confinato Giovanni che Schiavon lascia così penosamente sulle montagne della Sila cosentina. Si chiamava Giovanni Albonetti, un sarto di Faenza, che vecchio non era, aveva al tempo 60 anni scarsi. Emigrato in Francia dove trova un posto di cameriere, quando rientra temporaneamente in Italia e va a stare da una vecchia zia, viene arrestato e, come in uso allora, senza accuse specifiche e senza processo, sarà condannato al confino. Luogo di confino : Cinquefrondi.