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 La voglia di libertà costò carissima a cinque soldati calabresi nel lontano 1943. Due di essi erano di Cinquefrondi, uno di Polistena, il quarto di Cittanova, il quinto di Sinopoli. Finirono fucilati senza pietà con l’incredibile accusa di diserzione, quando invece stavano solo tornando alle proprie case. 

Francesco Rovere

Questa triste storia è venuta alla luce grazie a Giovanni Russo, storico direttore della Biblioteca di Polistena ed esperto di storia calabrese,  e a un prezioso libro del prof. Antonio Orlando intitolato ‘L’eccidio di Acquappesa dell’8 settembre 1943’ pubblicato a cura del Comune di Cittanova. 


Michele Burelli



Il libro è stato presentato nella sala della Mediateca di Cinquefrondi grazie all’iniziativa di Aldo Polisena, ex sindacalista della Cgil nonchè animatore e responsabile dell’Associazione Alioscia, nell’ambito delle iniziative per l’occasione del 25 aprile. Un evento che ha restituito dignità e onore a cinque disgraziati soldati, tanto ingenui quanto sfortunati, fucilati ad armistizio firmato, con l’accusa di diserzione, quando invece credevano che la guerra fosse finita e se ne stavano tornando tranquillamente alle rispettive abitazioni. 


I due soldati cinquefrondesi protagonisti e vittime di questa assurda vicenda si chiamavano  Michele Burelli e Francesco Trimarchi, ed erano di stanza ad Acquappesa in provincia di Cosenza, in forza alla 3a compagnia del 141mo Reggimento Costiero.  Burelli era il nonno dei fratelli Megna, affermati imprenditori nel settore dei marmi, Trimarchi era invece il papà di Michele, storico messo al Comune di Cinquefrondi. Gli altri tre soldati erano Francesco Rovere di Polistena, Salvatore De Giogio di Cittanova e Saverio Forgione di Sinopoli.

Appare qui perfino superfluo ricordare che non si sono mai visti disertori a guerra pressochè finita; inoltre i disertori quando scappano fanno subito perdere le proprie tracce, proprio per non incorrere nella pena che in tempo di guerra è la fucilazione immediata. 


I due cinquefrondesi insieme a tanti altri commilitoni presero invece la via di casa alla luce del sole, camminando tranquillamente per le vie principali che da Acquappesa conducevano alla stazione di San Lucido; non si stavano nascondendo, ma erano felici di tornare alle loro vecchie occupazioni e smettere di sparare addosso al nemico; salutavano sorridenti e felici tutti quelli che incontravano.  Non si sono mai visti disertori così strani…!

Di tutti quelli che se ne tornarono a casa in quei giorni convulsi che precedettero l’armistizio, solo quei cinque, misteriosamente, furono fucilati senza pietà. Tutti gli altri invece non subirono alcuna conseguenza.  C’è qualche informazione che manca nel puzzle della loro storia ? o tutto fu soltanto l’attuazione pedissequa e ottusa del codice militare ? e perchè non riguardò tutti e 19 ? ah, saperlo.

Di questa vicenda si è parlato diffusamente alla Mediateca durante la presentazione del libro del prof. Orlando. “Michele Burelli e Francesco Trimarchi di Cinquefrondi hanno pagato con la loro vita perchè credevano nella fine della guerra e nel ritorno a casa dopo l’Armistizio dell’8 settembre del 1943″ ha detto Polisena chiudendo la sua introduzione. 


Di seguito, il racconto completo con tutti i dettagli di questa incredibile storia….

 

di Giusepe Campisi

In un contesto che segna l’armistizio di Cassibile, il 3 settembre del ’43, e con esso l’avvio del processo di liberazione nazionale per mezzo della Resistenza, la Calabria non è esente dagli ultimi rigurgiti della guerra. La stessa Cinquefrondi e con essa buona parte del territorio della Calabria meridionale assistono all’avanzata delle truppe alleate ed alla costante risalita verso settentrione delle truppe nazifasciste subendo odiose ritorsioni: viene infatti fatto saltare il ponte sullo Sciarapotamo sulla strada che porta verso Anoia, ricostruito poi nell’immediato dopoguerra. 

La vicenda dei soldati cinquefrondesi si innesta in un contesto nel quale, appresa la notizia dell’armistizio, si pensa ad una svolta repentina che acceleri la fine della guerra tanto che il 5 settembre ben 19 soldati si allontanano dalla caserma di Acquappesa  (Cosenza) per fare ritorno alle loro case. 

Su un drappello di 19 uomini (il libro di Orlando informa che ben 14 di loro riuscirono nell’impresa del ritorno a casa senza alcuna penalità, ndr), cinque provengono dalla Piana di Gioia: oltre a Burelli e Trimarchi di cui s’è detto, completavano il gruppo Saverio Forgione di Sinopoli, Salvatore De Giorgio di Cittanova e Francesco Rovere di Polistena. 

Da Acquappesa, in marcia, raggiungono quindi lo scalo ferroviario di San Lucido, poco più di 20 km, dove un carabiniere, ironia della sorte, di Cinquefrondi, avvisa il comando di Fuscaldo della “strana” presenza dei soldati in stazione. Al danno si aggiunge la beffa: i cinque vengono immediatamente arrestati e ricondotti ad Acquappesa dove inizia il loro calvario. Imputati di diserzione, il comandante del battaglione maggiore Domenico Massimo ne reclama la fucilazione al suo superiore Remo Ambrogi. Il colonnello tergiversa mentre in paese inizia a circolare la notizia. 

Il cappellano militare don Pontarin (o Pontarino) invita il colonnello a desistere e questi si consulta, a sua volta, con il suo superiore, il generale valdostano Luigi Chatrian, che senza tentennamenti ordina la predisposizione del plotone di esecuzione per la fucilazione. Ambrogi, tormentato dai dubbi, invia il cappellano dal generale a Castrovillari per tentare una mediazione perorando la causa dei cinque “sprovveduti” ma in buona fede e quanto mai pentiti della leggerezza commessa evidenziando che la guerra stava peraltro volgendo al termine. Chatrian si mostra però irremovibile. 

Don Pontarin tenta il tutto per tutto recandosi a Soveria Mannelli dal generale Mercalli per implorare la grazia che non viene però concessa. È la vigilia dell’8 settembre. Chatrian preme e con un dispaccio nel quale si minacciano gravi sanzioni intima ad Ambrogi la fucilazione dei cinque poveri militari entro 24 ore. Il colonnello, con le spalle al muro, è costretto a cedere. 

Il plotone viene formato e affidato al tenente Navia che indica il cimitero come luogo d’esecuzione. L’orario della fucilazione è stabilito alle ore 23 mentre dalla radio, alle 19.45, si apprende ufficialmente della firma dell’armistizio. I militari esultano raccogliendo un barlume di speranza che da Castrovillari arrivi il contrordine, che non arriva né arriverà. Alle 23 Ambrogi ordina che entro un’ora si dia esecuzione alla condanna. La popolazione è in fermento ma, dopo arresti di personaggi ambigui e temporeggiamenti, il plotone viene incaricato dell’esecuzione della condanna. Mentre è palpabile la disperazione dei cinque, Navia rinuncia al comando del plotone affidato poi al sottotenente Nevio Minervini che, alle 2 e 30 di una notte scurissima, anche nell’animo, esegue l’ordine dello spietato generale Chatrian (successivamente “promoveatur ut amoveatur”) prontamente informato con un fonogramma. 

Un massacro tragico, insensato quanto certamente evitabile passato alla storia con il triste ricordo de ”l’eccidio di Acquappesa” costato vita, speranze e futuro a cinque ingenue persone – tra cui due giovani padri di famiglia cinquefrondesi – le cui spoglie riposano, assieme agli altri trucidati dall’assurdità della guerra, presso il sacrario militare di Condera e la cui memoria oggi opportunamente riabilitata è stata restituita, grazie alla costanza di studiosi e divulgatori, ai posteri ed alla collettività.                               

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