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Oggi a Cinquefrondi si ricorda un triste anniversario. Il 24 maggio del 1982, quindi esattamente 40 anni fa, si verificò infatti un terribile incidente al cantiere della Salcos dove si costruiva la superstrada Jonio-Tirreno. Quell’incidente costò la vita a un operaio nostro compaesano, Francesco Dieni. Un padre di famiglia, un uomo buono, un operaio capace. Aveva solo 49 anni e lasciò moglie e sette figli, Raffaele, Caterina, Carmela, Tullio, Pino, Paolo, Antonio, gli ultimi 4 ancora bambini.

Nulla fu più come prima dopo quel brutto giorno: non lo fu anzitutto per la famiglia di Dieni, per la moglie Concetta e i suoi figli, che oltre al marito e al  padre persero anche l’unica fonte di sostentamento economico; non lo fu per gli altri operai della Salcos, che presero coscienza di quanto fosse pericoloso il loro lavoro e della necessità di altre norme per migliorare la sicurezza al cantiere. Non lo fu per tutti i cinquefrondesi che dovettero prendere atto del carissimo prezzo pagato per quella grande opera pubblica, che qualche tempo dopo sarebbe costata la vita anche ad altri due operai di Mammola, vittime di altrettanti incidenti sul cantiere della parte jonica.

Dieni era un brav’uomo che si ammazzava di lavoro, aveva un vocione e un carattere apparentemente burbero, portava sempre un bel paio di baffi che curava meticolosamente, erano il suo biglietto da visita. Faceva una vita semplice e tranquilla da operaio, tutto casa e lavoro e la passeggiata serale in piazza con gli amici, mai una vacanza, mai un viaggio, mai un divertimento. Amava alla follia i suoi figli, i due più piccoli li teneva sulle gambe perfino a tavola. “Di lui abbiamo solo ricordi splendidi -dice oggi la figlia Caterina- era sempre affettuoso, sapeva pure cucinare. Stravedeva per mia mamma. Di lui non ricordo mai una parola cattiva, quando lo facevamo arrabbiare diceva tutto con lo sguardo”.

Per Francesco Dieni e per tanti come lui nella Cinquefrondi di quegli anni, quel grande cantiere sorto lungo il fiume Sciarapotamo era un simbolo di felicità, significava una svolta inaspettata: un lavoro vero e uno stipendio sicuro senza dover emigrare (come poi dovettero invece fare quasi tutti i suoi figli), un lavoro nel proprio paese e quindi la certezza e la tranquillità di poter vivere con la propria famiglia, nella propria casa. Cosa desiderare di più ?

Quel sogno fu distrutto il 24 maggio di quaranta anni fa, quando una scarica elettrica ad alta tensione colpì Francesco Dieni “mentre lavorava in una buca dove veniva effettuato un gettito di cemento” come ha raccontato in un suo piccolo libro, dedicato alla superstrada, l’allora sindacalista della Cgil Aldo Polisena. Per il povero operaio cinquefrondese non ci fu scampo. I compagni di lavoro proclamarono subito uno sciopero, il paese si strinse attorno alla famiglia Dieni in un abbraccio collettivo e affettuoso, il sindacato sollecitò inchieste, intervenne la magistratura, ma nulla poteva restituire quell’uomo ai suoi cari.

Non era il primo incidente mortale sul lavoro, altri ce n’erano stati e ce ne furono ancora nella storia cittadina, ma quello colpì per le modalità, per la confusione del momento, per le versioni non tutte concordanti sullo svolgimento dei fatti, una cosa che ancora angustia Pierpaolo, il penultimo dei sette figli dell’operaio, che all’epoca della tragedia non aveva ancora compiuto otto anni. Pierpaolo oggi è un imprenditore affermato, ma è cresciuto senza papà, con tutti i sacrifici che questo comporta; a un certo punto per trovare lavoro ha dovuto lasciare il paese, è emigrato al nord, si è fermato in Toscana dove pian piano ha messo su un’azienda, ma il dolore per il padre portato via a quel modo non l’ha mai abbandonato. E insieme al dolore, c’è la rabbia, perchè secondo lui non tutta la verità su quell’incidente venne fuori, non tutte le responsabilità vennero accertate fino in fondo. Vorrebbe fosse riaperto il processo alla ditta costruttrice, magari raccogliendo nuove testimonianze sui fatti di quella giornata.

La tragedia di Francesco Dieni fu seguita da un mare di polemiche sindacali e da un processo in tribunale, che non portarono a nulla, in ogni caso magre consolazioni di fronte a una vita distrutta a quel modo.

L’ultimo giorno di vita di Francesco Dieni era un lunedì. Di mattina presto andò al lavoro, “io -racconta Caterina- ero vicino alla fontana di Santa Maria, avevo un pancione grande, ero incinta di mio figlio Francesco. Ricordo che lui mi fece ciao con la mano, sto andando a lavorare, disse. Poi verso le undici venne a casa mia una parente dicendo che era successo un incidente a papà, ‘l’hanno portato all’ospedale di Polistena, è ferito’. Telefono subito al pronto soccorso, ‘è vero che è ferito ?’ chiedo, e quelli mi dicono ‘no signora, è morto’. Sono svenuta, racconta ancora Caterina, speravo fosse stato un errore, un brutto sogno. Per tanto tempo non sono riuscita ad accettare quel fatto, e speravo sempre che mio papà tornasse. Quella mattina mia mamma era al mercato, e lì seppe che avevano trasportato papà  all’ospedale con una 500. Ed è stato un motivo di altro dolore, ci pensi a mio padre, che era un omone, privo di sensi o forse già morto, infilato in fretta e furia dentro a una macchina così piccola e con due soli sportelli ?”

“La cosa più brutta -continua Caterina- è stata  che poi al processo sono andati a testimoniare altri operai e compagni di lavoro, dissero che papà nessuno l’aveva mandato a svolgere il compito da cui poi era derivato l’incidente, come se fosse lui e non i superiori a decidere che cosa fare. Insomma gli hanno praticamente scaricato la colpa, sostennero che era andato lui di testa sua a porgere il ferro vicino alla gru, dove poi ci fu la scarica elettrica. Quando lo portarono in ospedale, il corpo pieno di bruciature, aveva ancora il panino del pranzo in tasca. Grazie a quelle testimonianze la ditta se la cavò, mia mamma prese un misero risarcimento economico, offensivo rispetto a una vita umana che si era persa. Noi eravamo distrutti. Ma che altro potevamo fare ?”.

Il giorno del funerale ci fu una grande folla, vennero tutti gli operai della Salcos che aveva vari cantieri aperti per la superstrada, operai di altre ditte, c’era tantissima gente del paese, molte corone di fiori. Davanti all’ingresso della villa il corteo con la bara portata a spalla si fermò, qualcuno fece un discorso, ma non ricordo chi era e nemmeno che cosa disse, ero distrutta dal dolore, non mi reggevo in piedi”.

La famiglia Dieni, che già economicamente non se la passava bene, pagò anche le spese del funerale,  la Salcos infatti non ritenne di sborsare nemmeno un centesimo per il suo fedele operaio, peraltro uno dei primi assunti quando era stato aperto il cantiere per la superstrada e anche il primo morto sul lavoro, un comportamento che ha dell’incredibile. Nemmeno il Comune si preoccupò di aiutare la famiglia dell’operaio.  I Dieni sono gente orgogliosa, con dignità e in silenzio hanno fronteggiato la montagna di dolore cadutagli addosso e tutti i problemi conseguenti. E hanno guardato avanti.

Oggi in famiglia ci sono quattro Francesco Dieni, nipoti dell’operaio morto il 24 maggio del 1982, e un altro Francesco (che però di cognome fa Napoli, figlio di Caterina) che onorano la memoria del loro nonno.

La superstrada ormai fa parte non solo del paesaggio del paese, ma letteralmente della vita di ciascun cinquefrondese. Ognuno di noi vi passa di continuo, anche diverse volte al giorno. Ecco, quando passiamo da lì in auto, su quei piloni che portano verso la jonica, riivolgiamo un pensiero a quell’operaio che lì ci ha lasciato la vita, era di Cinquefrondi, si chiamava Francesco Dieni.

 

 

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