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Storie di campagna in dialetto cinquefrondese
Il dialetto scomparirà in un giorno non lontanissimo. Non è una previsione catastrofica. Sono infatti sempre di meno coloro che lo utilizzano come lingua esclusiva, e ancora meno numerosi sono quelli che lo usano in contemporanea con l’italiano.
Di contro, aumentano a dismisura quanti parlano esclusivamente l’italiano, limitandosi a comprendere il dialetto, in modo passivo, e senza essere più in grado di utilizzarlo attivamente. Questo fenomeno è irreversibile. La lingua italiana si è oramai imposta senza riserve, la scuola e soprattutto la televisione e i media stanno seppellendo un pò al giorno ciò che rimane del dialetto, di qualunque dialetto o parlata locale.
La scomparsa della lingua locale è legata a poche semplici circostanze: anzitutto la totale prevalenza culturale della lingua ufficiale del nostro paese, cioè l’italiano. All’inizio del secolo scorso la lingua italiana era ancora per molti una cosa strana e sconosciuta, ma l’esercito prima e la scolarizzazione di massa poi, contribuirono a uniformare quanto più possibile la lingua nazionale. Poi l’exploit della radio e quindi della tv hanno fatto il resto. Il lavoro è stato completato dai giornali, dalla letteratura, dalla pubblicistica in genere.
Il lento inesorabile affermarsi della lingua italiana è andato di pari passo con il progressivo, e altrettanto inesorabile, indietreggiare del dialetto. E’ diminuita, anche se non ovunque con la stessa rapidità, la produzione letteraria dialettale; la prosa e il romanzo in genere già avevano poca o nulla tradizione, ma anche la poesia è venuta via via riducendosi. A questo si aggiunga che il dialetto, legato intimamente alla vita contadina, povera, d’altri tempi, è stato identificato con l’arretratezza, il sottosviluppo, in confronto all’italiano, che si è venuto presentando come la lingua della modernità e della crescita.
A Cinquefrondi, dove si parla una delle tante varianti del dialetto calabrese, oramai da anni è quasi del tutto scomparsa la produzione letteraria, di qualunque tipo, foss’anche di scadente qualità. La scolarizzazione è diventata davvero di massa, l’analfabetismo è ridotto entro margini trascurabili. In molte famiglie i bambini vengono ‘allevati’ nella sola lingua italiana, il dialetto si parla soprattutto con gli amici e in un numero sempre decrescente di ambiti familiari; è quasi del tutto in via di scomparsa negli ambiti istituzionali e ufficiali.
Insomma, nella battaglia per la sopravvivenza, il dialetto ha avuto la peggio e si avvia alla scomparsa. Ci vorranno ancora molti decenni perché ciò sia riscontrabile concretamente, e nessuno di noi ovviamente vivrà abbastanza per poterlo constatare di persona: è lo stesso ricambio generazionale a scandire il tempo di questo ineluttabile processo.
Quando tutta sarà compiuto, insieme con il dialetto sarà scomparso anche un enorme pezzo della nostra storia e civiltà. Con le tante parole e modi di dire che hanno accompagnato i nostri giorni, e quelli di chi ci ha preceduto in questo mondo, saranno sparite anche le tracce dei nostri legami con altre culture, accumulatesi lungo il corso dei secoli, quella romana e greca, ma anche francese, araba e spagnola, che sono finora sopravvissute nel patrimonio linguistico locale.
Con il dialetto scomparirà anche l’eco della nostra antica tradizione contadina e rurale che già oggi appartiene in massima parte solo alla sfera del passato, e sembra aver reciso i suoi legami con il presente.
In ambito cinquefrondese gli ultimi scritti in dialetto degni di questo nome sono di Pasquale Creazzo e Luigi Massara, che risalgono rispettivamente alla metà e alla fine del secolo scorso, dopodichè la scrittura dialettale è scomparsa totalmente.
Noi tuttavia non vogliamo rassegnarci a veder scomparire le tracce della nostra identità, come spettatori passivi. Anzi, nel nostro piccolo pensiamo utile e bello dare voce a forme di espressione dialettale sia di tipo squisitamente letterario, sia di altra natura. Oggi pubblichiamo il primo di una serie di dialoghi fra contadini, tutto in dialetto cinquefrondese. E’ stato scritto da Micu, una persona molto legata alla nostra terra e alla terra. Il testo non ha velleità letterarie, ma propone uno scambio di opinioni non banale che riguarda la campagna e le relazioni sociali del nostro tempo. E’ un testo facile da leggere, nonostante la difficoltà nella trascrizione di alcune parole e suoni, non riproducibili con il comune alfabeto. Ma certamente i lettori capiranno.
Cumpari Micheli, chi eni a la Svizzera si ‘ncùntra jùsu a lu stabbuli soi cu n’amicu di sempi, cumpari Micu.
Cumpari Micheli: Caru cumpari Micu, cu ‘sti du’ figghji chi si stabbiliru a Zurigu mi perdìa di Cincrundi, càppara. Ma lu penzeru meu sempi cca’ eni, a li famigliari, a l’amici e a ‘stu stabbuli chi aijeri trovai menz’abbandunatu e chjinu d’agròpastu e di spini. Nc’ennu st’alivari chi fannu pena e ‘sta terra senza mancu ‘na fogghija di lettuca, senza ‘na resta di suriaca o di pumadora; eppuru eni abbivaratizzu; quandu nc’era eu cinquant’anni arretu, facemu di tuttu. Quandu campava patrima, ed eu era cotraredhu, doppu la guerra, non ndi mancau mai lu mangiari ‘mu campamu. Sordi non nd’avemu, ca l’avenu li ricchi di lu paijsi, ma a la tavula la minestra, li pumadora, li patati, li curricedhi, lu rodindia, l’ogghjiu e l’arangi non ndi mancavanu. Vui lu sapiti comu a mia, caru cumpari, ‘mu si lavura la terra la schina si spacca, li vrazza puru e la bùggia non si parinchj mai di sordi.
Cumpari Micu: Santi paroli, cumpari Micheli. Però li tempi cangiaru, puttroppu guardandu ‘su stabbuli vostru, eu criju ca ndavi troppu tempu chi non si faci nenti. Eu lu sàcciu, pecchì passu tutti li ijorna ‘mu vaiu jus’a mia. Una o du’ voti a l’annu vi veni Cicciu Menzanotti ‘mu vi tagghjia li spini e basta; l’alivari non fùdaru mai putati, pàrinu ‘na foresta, lu terrenu non fudi mai trattoriatu ‘mu si poti curtivari. Eni peccatu cumpari Cheli, pecchì lu terrenu è bonu, è destru di suli, ndaviti l’acqua di lu puzzicedhu. Oramai nc’eni la strata asfartata ‘mu si poti arrivari. Si potarrìa curtivari ‘mu mangianu cosi boni e genuini armenu du’ famigghji ‘ntra ‘sti quattru tumanati di terra vostra.
Cumpari Micheli: Ndaviti raggiuni cumpari Micu, domani se ‘ndaviti tempu ndi vidimu cca’ jusu e parlamu, accussì mi cunsigghjati comu potarrìa curtivari ‘stu stabbuledhu.