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Non solo musica e non solo cose belle ci furono nella vita del maestro Carlo Creazzo. Anzi proprio i suoi successi alla direzione della Banda cittadina, le manifestazioni di stima che provenivano da fuori paese, le proposte di lavoro che pure rifiutò pur di continuare a vivere a Cinquefrondi, sollevarono in alcune persone sentimenti di invidia e anche qualche malignità di troppo. Creazzo era una persona mite e tranquilla, viveva di musica e di arte, si faceva pagare come un bandista qualsiasi, spendeva soldi di tasca per aquistare spartiti e opere varie, curò la realizzazione di un bell’archivio con le sue sole risorse personali. Epperò c’era gente a cui questo non stava bene, fu vittima di qualche richiesta estorsiva che lui stesso però volle derubricare a possibile scherzo; subì pure il sabotaggio sistematico del suo lavoro nella Banda, un’opera che forse aveva anche qualche ragione politica data la sua vicinanza all’allora Podestà Francesco Della Scala di cui era amico e che lo teneva in gran conto, tanto che il maestro era sempre presente in tutte le cerimonie e iniziative pubbliche promosse dall’uomo politico. Da soprusi e  sabotaggi Creazzo si difese come potè, a un certo punto però disse basta, e mandò tutti a quel paese: è singolare che ciò sia avvenuto pochi giorni dopo la morte di Della Scala, quasi come a dire che a quel punto non c’era più modo per lui di uscire da quella situazione negativa.  Oggi seconda puntata della storia del maestro per come è stata ricostruita dal musicista cinquefrondese Angelo Fiorillo; vi proponiamo un brano tratto dal libro “L’esperienza musicale di Carlo Creazzo nella tradizione musicale di Cinquefrondi” (Leonida Edizioni) che parte proprio dall’inizio, cioè da quando il giovanissimo Creazzo divenne direttore della Banda cittadina.

di Angelo Fiorillo

LA DIREZIONE DELLA BANDA E LE DISAVVENTURE – Nel 1897 toccò a Carlo Creazzo assumere la guida e la direzione della banda cittadina. Egli venne catapultato in questa realtà, «giovane e tremante», come lo stesso racconta in alcune sue memorie: Fanciullo ancora, in assenza del Maestro Signor Raffaele Panetta che aveva smesso di dirigere la banda della nostra cittadina, in occasione di una festa, fui preso in braccio e posto sul palco, di fronte ai bravi musicanti, per dirigere il concerto. Presi tremante la bacchetta e con gli occhi fissi su lo spartito, seguii le note e non sbagliai il tempo – avevo già un discreto corredo di studi. Fu quello il battesimo di fuoco alla mia anima ardente di sapere, e da quel giorno sognai con più fascino le vie grandiose e sovrumane dell’arte.

Giovane, ma già sicuro di sé, continua ribadendo: […] Nel 1897, ventitreenne appena, assunsi sicuro la direzione di questo corpo musicale – ne avevo allora la relativa competenza. Da quel giorno, anche per la mia indole semplice ed amorosa, considerai la banda come una mia figlia di cui ero il padre. E con il più grande disinteresse, quasi per compiere un apostolato, aprì il mio studio e la mia scuola a quanti giovanetti più mi capitarono, svegliando in loro i sentimenti del bello e l’amore per l’arte. Da allora ad oggi, centinaia di giovani uscirono dalla mia scuola, più o meno ottimi suonatori, senza che dà loro avessi mai preteso il più tenue compenso.

Da questo sunto traspare tutta la passione, la dedizione e l’amore per l’arte musicale che il Maestro mise a disposizione di molti, tra gioie e dolori, come si evince nel leggere il contenuto del suo lavoro letterario. Tuttavia, la vita artistica e umana del Creazzo, per colpa dei cosiddetti “buontemponi”, è stata segnata da vicende che poco hanno da dire con l’arte, sconfinando nei grotteschi meandri delle più insane maldicenze cittadine. Fatti che inoltre hanno tracciato un profondo solco nell’animo mite che lo contraddistinse. Mai l’espressione di Gesù «nessuno è profeta nella propria patria» fu così centrata, tanto tali furono le malignità perpetrate da quella corrente di cinquefrondesi che egli dovette fronteggiare. Ciò se si pensa, oltretutto, che per rimanere alla guida di quella banda, che egli sentiva come sua creatura, rifiutò offerte vantaggiose con possibili lauti guadagni andando altrove a prestare la propria opera, convinto che abbandonarla fosse come tradirla.

Molti e ripetuti furono i tentativi di disgregazione del corpo musicale da parte degli «Assalonni» (lui definiva così i guastatori, nda) proprio nei momenti cruciali e in prossimità di servizi di una certa importanza, ritrovandosi con l’assenza di alcuni musicanti «che a dispetto si piazzavano in bande di paesi vicini».

Nel seguente passo il Creazzo precisa: Ho sempre lottato per dare alla mia banda un vero equilibrio organico corrispondente alle esigenze dei tempi, e ciò mercé una quotidiana e gratuita scuola. E vi fu un vero florido periodo, in cui furono non lievi i miei sacrifizi per impartire lezioni e preparare al debutto molti giovanetti che oggi possiedono bene l’arte del loro strumento. Ed ho l’orgoglio di ricordare a me stesso che da una piccola banda, ero arrivato a formare un complesso talmente equilibrato che poteva benissimo avviarsi verso il grande stile.

Questo ideale, la lotta contro le difficoltà dei tempi e dei mezzi finanziari, fu ben poca cosa di fronte alla lotta sorda, tenace, subdola, velenosa, assillante dei nemici interni; degli Assalonni, dei Don Basilii che alitando il venticello nell’animo degli ingenui, versarono il loro filtro malefico! Vi fu in sostanza un alternarsi di vicende poco edificanti. In più va evidenziata l’intromissione di personaggi dall’atteggiamento malandrino e dal ruolo ambiguo e malizioso che, come scrive Creazzo: […] hanno la caratteristica della voce melliflua, del parlare pacato, sottovoce, con l’aria dei savi moralisti sapientoni […] si introducono in tutte le questioncelle personali che sorgono nel paese, e danno ragione or a l’uno ora a l’altro dei contendenti, secondo che a loro convenga […] costoro appartengono alla genìa della vera cancrena sociale e spesso sono responsabili di conflitti, di reati di sangue e di lutti […]. Tante le opportunità di crescita fatte fallire. Come quella nel 1928, in occasione del contributo di tremila lire in forma di anticipo su alcuni servizi civili che il podestà intendeva concedere per l’acquisto di strumenti, con la promessa che tale pratica si sarebbe ripetuta negli anni seguenti, mentre i soliti guastatori criticavano l’iniziativa dell’amministratore, manifestando l’irrealizzabile desiderio di spartire la somma. Il podestà, saputa la cosa, revocò l’aiuto.

Rimanendo quindi nell’aspetto della retribuzione, c’è da rimarcare che Carlo Creazzo, per accontentare chi pretendeva una paga superiore e per evitare quindi le lamentele degli altri musicanti, qualche volta dovette intervenire aggiungendo del proprio denaro. Un giorno, quei musicanti amici del Maestro, grati degli incalcolabili sacrifici, si misero d’accordo per fargli avere una ricompensa economica sebbene egli non avesse mai chiesto nulla. Non tardarono i mugugni di alcuni che, apostrofando d’imbecillità i promotori, dovettero digerire l’amaro boccone, per bocciare poi tale iniziativa per la quale, in periodi di scarsa attività bandistica nei quali si svolgevano solamente servizi funebri, fu fatta proposta di revoca della stessa.

Dal susseguirsi di tali avvenimenti ne fu colpito inesorabilmente Creazzo, dove l’esasperazione  spesso prese il sopravvento, come in quell’accusa di non far concertare la banda mentre per essa egli dava se stesso, «è noto che la mia casa, in tutti i giorni ed in qualunque ora, è sempre aperta a tutti coloro che amanti della musica […] vogliono istruirsi», mentre in realtà erano i soliti a fare ostruzionismo sulle attività. Fatta una schietta ed equa analisi dei documenti visionati, attraverso i quali non si vuole assolutamente fabbricare ad arte nulla che possa far pensare a un certo revisionismo della storia cinquefrondese di quel tempo e dei fatti successi (i fatti sono quelli citati e sono di dominio della città di Cinquefrondi), è verosimile, visto il clima storico politico che l’Italia attraversava giacché si era all’epoca del “fascio”, che dietro a tutto ciò vi fosse una sorta di lotta ideologica tra fazioni contrapposte: quella fascista, in cui convergevano alcune frange cattoliche, e quella antifascista, in cui confluivano quelle forze che vedevano complice del regime chi cooperava con le istituzioni e si riconosceva in esse. A questo proposito il Creazzo ci lascia un importante indizio, che potrebbe far supporre a quanto detto, quando si rivolge all’autorità andando «dal Maresciallo» per cercare di impedire ai nemici di costituire un nuovo corpo musicale: È lecito a quattro sovvertitori, scioperanti ed antifascisti, con soprusi e mezzi disonesti, attaccare una Banda del Dopolavoro, in regola con le leggi Sindacali e della Società degli Autori: con le leggi Fasciste?

Con ogni probabilità Carlo Creazzo non appartenne né all’uno, né all’altro blocco politico. La denuncia all’autorità fu, verosimilmente, più un semplice sfogo prima di tutto, poi un disperato atto a difesa del proprio lavoro con la funzione di impedire lo sfaldamento della banda. In più possiamo dire che, nonostante tutto, e probabilmente anche per merito del Creazzo stesso, Cinquefrondi riuscì a mantenere l’unità della banda, almeno finché egli ci rimase come direttore. Pericolo che non scamparono altre realtà del Sud dell’Italia, in cui per motivi puramente politici nascevano le “bande bianche” contrapposte alle “bande rosse”. Negatività di cui nemmeno la Calabria rimase indenne come ad esempio a Decollatura nel catanzarese, dove negli anni Venti, a causa delle schermaglie politiche, si verificò una scissione tale da costituire la formazione di due bande facenti riferimento a due delle frazioni dello stesso comune, quella di San Bernardo e quella di Casenove le quali si distinguevano anche per le opposte ideologie politiche.

Dal 1933 e nel giro di un quindicennio, a Cinquefrondi vi fu, non una scissione, ma piuttosto un processo di completo, anche se provvisorio, disfacimento della banda. Tutto ciò da quando Creazzo iniziò il proprio inesorabile allontanamento da essa e dopo aver pubblicato il famoso sunto storico della propria vita datato agosto 1933, in cui denunciò, fra l’altro, le malefatte che alcuni individui gli propinarono. Il culmine di questo lento declino si ebbe intorno al 1946, momento in cui, dal sostanziale sfaldamento del corpo musicale, buona parte dei componenti confluirono nella banda cittadina della vicina Polistena. Durante la pluridecennale attività d’insegnamento e di direttore, innumerevoli sono gli aneddoti che descrivono Carlo Creazzo come un dignitoso, paziente padre dei propri allievi che sapeva incassare e rilanciare al tempo stesso. Le angherie subite tracciano apparentemente un carattere debole di un uomo spesso in balìa dei suoi nemici. L’amore per l’arte ne fa un individuo totalmente asservito a essa, ma non di certo sottomesso a coloro che lo oltraggiarono, d’altronde le reazioni di Carlo furono a tratti impetuose. (…)

“Fujiti, zingari, ca passa la banda”

Il Maestro fu anche personaggio ironico e dissacrante, anche se rispettoso dei simboli religiosi. Qui, in maniera simpatica, vengono citate alcune delle sue battute riportatemi dai cittadini cinquefrondesi.

A un percussionista che aveva difficoltà ad eseguire un gruppo di tre terzine culminanti su una croma, chiese che lavoro egli facesse, il musicante disse di essere calzolaio, e il Maestro: «Fai finta di dire così: “Pig-ghia-la le-si-na e por-ta-la ‘ccà!”» Imitando il suono delle parole, il musicante eseguì correttamente le figure musicali. Come risposta a uno scherzo ad opera di qualche amico, il quale fece trovare davanti alla casa del Maestro un foglio affisso con una scritta dove gli s’intimava la consegna di un’ingente somma in denaro, il musicista rispose sul foglio stesso scrivendo: “In casa mia non è mai esistita una cifra del genere, se volete, posso suonarvi un Tantum Ergo in chiesa”.

Durante una Pasqua vide in chiesa una donna anziana che piangeva davanti al Cristo morto, e diceva: «Figlio… come ti hanno ridotto!» E lui aveva commentato: «… e meno male che non era maestro di banda…» In occasione della nomina di un nuovo parroco nella vicina Maropati, egli fu chiamato a suonare durante la cerimonia d’insediamento. Il giovane prete, prendendo la parola, disse ai  parrocchiani indicando colui che era stato il suo padre putativo: «Se non fosse stato per quest’uomo che mi ha dato quattro schiaffi, io a quest’ora non sarei sacerdote!» E il maestro sommessamente: «… e se te ne avesse dati otto… saresti diventato vescovo?»

La predisposizione alla mitezza e all’altruismo di Creazzo si può avvertire anche nei rapporti che egli aveva con i suoi amici musicisti. Molte, infatti, erano le richieste di visione di brani composti, dove il musicista cinquefrondese era chiamato a dare un giudizio e, ove necessitasse, apportare correzioni. Ce n’era uno in particolare molto esigente: Don Angelo Mascagna. Il sacerdote si poneva con una certa confidenza e, qualche volta, durezza; questi, alla fine di ogni lettera, si rivolgeva al Creazzo chiedendo di essere compreso e scusandosi per la propria «faccia tosta». Altre volte mandava messaggi di auguri ricordando però, specie in un’occasione, di attendere «ancora da otto mesi la mazurka» che egli aveva mandato per un’esame; e poi ancora, «… giacché mi avete dimenticato, tocca a me ricordarvi che ancora esisto […]. Per punizione della Vostra imperdonabile dimenticanza vi mando questa canzoncina da correggere […]. Perdonate la faccia tosta di chi tanto vi stima.»

 

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