Questa notizia è stata letta 525 volte
Si può avere un ideale politico e nutrire stima e amicizia per persone che la pensano all’opposto ? certo che si può, naturalmente, anche se di questi tempi le vagonate di odio che, specie nel delirio social, vengono rovesciate addosso a chi è considerato nemico, a destra o a sinistra, inducono a pensare il contrario. Una violenza verbale che non distingue persone e fatti e che non porta dialogo e qualità al dibattito.
Perciò vi sembrerà di un altro pianeta la serenità con la quale l’arguto e imprevedibile Pasquale Creazzo si rapportava ai suoi tempi con chi non la pensava come lui, ma stava addirittura all’opposto. L’uomo era fermo nelle sue idee ma anche saggio, perchè sapeva distinguere gli ‘altri’ con i quali si poteva dialogare e perfino diventare amici, e quelli ai quali riservare critiche feroci e spietate nei suoi interventi pubblici e nelle sue poesie.
Oggi raccontiamo di alcune amicizie che il comunistissimo Creazzo coltivò con persone e famiglie di dichiarata fede fascista o comunque anticomuniste come i Della Scala, i Ferrari, i Raschellà. Niente che compromettesse la sua limpida appartenenza alla sinistra, nessuna commistione di idee, ma solo stima fra persone e intelligenza di vita, perchè Creazzo, nonostante le etichette che gli sono state cucite addosso, a motivo di facile propaganda, era in realtà un uomo davvero libero dai condizionamenti ideologici. Talmente libero da non aver alcun problema a esprimere la sua leale amicizia verso persone e famiglie che, dal punto di vista delle idee, stavano altrove rispetto a lui. Un atteggiamento, come vedrete, che rivela e conferma la sua natura di uomo sapiente che, pur nella propaganda appassionata delle sue idee, a volte anche molto rude e polemica, riuscì a mantenere sempre una serenità nel rapporto con gli ‘altri’, cosa che oggi sembra incredibile nella sua normalità.
I Della Scala avevano in don Ciccio il loro campione: prima di diventare Podestà e capo del partito fascista era stato dal 1895 Consigliere Provinciale; dal 1891, quindi ben prima del Ventennio fascista, fu una figura di grande rilievo a Cinquefrondi, vinse anzi stravinse tutte le elezioni alle quali partecipò, e a lui si devono la maggior parte delle opere e degli edifici pubblici ancora esistenti a Cinquefrondi (a cominciare dalla Scuola elementare, la Villa, il Municipio, la Casema dei carabinieri, la Pretura, l’Asilo e molto altro ancora, in gran parte realizzati prima del 1933 anno della sua morte).
Con don Ciccio Della Scala il poeta Creazzo entrò più volte in contatto, talora anche polemicamente, ma insieme i due discussero spesso di questioni cittadine, fra le altre cose anche della collocazione migliore per la costruenda Torretta. Quando nel luglio del 1933 Della Scala morì, il poeta fu tra i primi a mandare un telegramma di cordoglio alla famiglia, e così pure il figlio Garibaldi che fece anche affiggere un manifesto di lutto a sua firma, essendo all’epoca segretario del Sindacato Fascista degli Artigiani cinquefrondesi. Anche il musicista Carlo Creazzo, fratello del poeta, che con Della Scala aveva a lungo collaborato, manifestò il suo cordoglio.
Creazzo ebbe un legame importante con i Della Scala fascisti tanto che la famiglia chiese proprio all’esponente comunista cinquefrondese l’orazione funebre in occasione di due eventi luttuosi. Il primo nel luglio 1923 quando Vincenzino Moricca, nipote di don Ciccio (figlio della sorella Teresa), fu ucciso da un cognato nei pressi di Nicotera. A quei tempi invero le divisioni e le lotte tra fascisti e antifascisti erano ancora acerbe: il partito comunista era nato appena due anni prima, e solo da un anno il fascismo si era insediato. Ma il poeta aveva già un consistente passato di attivista socialista e i Della Scala erano sempre stati sul fronte avverso dei liberali prima, e dei fascisti poi. Ma ciò non ne impedì l’amicizia evidentemente.
«Quella fiamma − disse fra l’altro nell’occasione Creazzo, riferendosi al giovane ucciso − si è spenta nella notte fatale a pochi passi da quella che poteva e doveva essere la sua casa, senza che in questa si riaccendesse nemmeno la fiamma della pietà che non si nega neanche a un estraneo». Il giovanotto era stato ucciso mentre andava a trovare la sua bambina che viveva con la moglie, dalla quale era separato.
Ben dodici anni dopo quei tristissimi giorni, dunque nel 1935, sempre Creazzo fu chiamato a tenere un’altra orazione funebre, stavolta per Teresa Della Scala, mamma proprio di Vincenzino. Teresina, come veniva chiamata la sorella prediletta di don Ciccio, era una donna forte, di quattro anni più grande del Podestà; rappresentò a lungo un punto di riferimento per tutta la grande famiglia dei Della Scala dopo la morte dei genitori. In paese era una personalità. Morì improvvisamente all’età di 69 anni.
La folla presente ai funerali ascoltò Creazzo, il quale rivelò anche alcuni segreti della donna e le riservò parole inaspettate, dalle quali trasparivano grande stima e amicizia, e nessuna critica politica o ideologica:
«Onorare gli estinti senza dubbio è una delle più grandi opere umane», disse Creazzo e aggiunse: «quello che io poi mi pregio di compiere dinanzi a questa sacra bara, è un alto e sentito dovere, determinato da un complesso di affetti e di delicati sentimenti che mi legano da anni alla famiglia di questa Nobile scomparsa. E credetelo: l’audacia che mi spinge a pronunziare modeste e disadorne parole, non ha altro scopo da quello della speranza di riuscire a lenire, specialmente, l’acuto dolore del mio onorevole amico per la perdita di tanto tesoro di madre. La madre! ma chi può descrivere il dolore della perdita di una madre, qualunque essa sia? ma quando una madre come questa racchiude in sé il profumo di tutte le virtù muliebri, la sua perdita desta tale una profonda, cruenta ferita, che solo la mente e il cuore possono darsi conto, ma le labbra non sanno e non possono esprimere. Io credo, signori, che ancora a nessun artista è riuscito di ritrarre la vera immagine del dolore della perdita di una santa mamma!
“Teresa Della Scala vedova Moricca – madre esemplare, dotata delle più elette virtù domestiche e civili” dice l’annunzio di morte. Mai al mondo fu scolpita epigrafe più sincera, mai al mondo in brevi parole fu riepilogata e incisa la vita di un trapassato. Ed è noto a tutti noi: non è per fare uno dei soliti elogi, quasi sempre bugiardi, detti sfacciatamente per lusso di convenienza. “Madre esemplare”… e si può essere più esemplari? ma se dedicò tutta la vita all’educazione dei propri figlioli…a nulla mancando di tutte quelle cure che solo le madri ben nate sanno prodigare, a tutte le attenzioni che il più delicato cuore sa suggerire? e quali altri sono i doveri di chi apre una famiglia, oltre quelli verso i figli? i doveri verso lo sposo. Ebbene ricordiamoli anche questi o signori: divise le gioie e i dolori col proprio consorte, a cui giurò amore e fedeltà, mai dando motivo a un dissapore, ed anzi studiandosi esageratamente di renderlo felice. Per lunghi anni il dott. Giuseppe Moricca trascinò in casa la sua cadente età e se una immane sciagura non lo avesse sorpreso nei suoi ultimi giorni, lo avremmo visto come sempre fino alla fine, con quel suo sorriso di tranquillità che proviene dalla pace di cui solo può essere larga dispensiera una esemplare consorte.
“Virtù domestiche e civili”… non starò qui a catalogare tutte le buone opere di Donna Teresa Della Scala, ma rilevo che, fedele alle illustri tradizioni di famiglia, fu Signora Distinta, che seppe conciliare la dignità della sua casta, con la più semplice, spontanea, naturale democrazia; cosicchè ha potuto passare la vita, ammirata ed onorata dalle compagne della più alta società, amata e stimata dalle più umili creature, verso le quali era larga di socievolezza, di aiuti e di carità. E la sua casa fu asilo del povero. E nella sua casa non si negò mai nulla a nessuno.
“Religiosa per vero sentimento”… non dovrò certamente io rammentarvi la vita spiriturale della Nobile estinta. A voi signori è abbastanza nota. Ora, siccome a me piace, di ogni idealità, rilevare la parte veramente sostanziale, l’essenza veramente utile ed umana, vi racconterò un episodio. Molti anni addietro, comparve qui una compagnia filodrammatica, gente pietosa che suole ramingare nel mondo pel diritto alla vita! qui si era ridotta in condizioni peggiori! quella sera, che non dimenticherò mai, Vincenzino Moricca, altro cuore d’oro, disse alla madre in mia presenza: “Mamma quella povera gente stanotte parte, ed è da ieri sera che non apre bocca, i bambini piangono per la fame”. Negli occhi di Donna Teresa Della Scala vidi brillare una lacrima. Poco dopo, verso mezzanotte, ai filodrammatici arrivava un pranzo per 15 persone, pranzo succulento, ricco di pietanze, di ottimo vino e di abbondante frutta.
Questa è religione che tutti dovremmo intendere e seguire: essenza di umanità, emanazione sintetica del Vangelo, rampogna all’egoismo, insulto ben dato alla ingorda ricchezza, umiliazione ai predicatori di false ed esteriori dottrine senza opere, comprensione delle altrui disgrazie, esaltazione dell’umana fratellanza».
Creazzo piange l’amico fascistissimo Ciccillo Ferrari
Il 15 dicembre del 1927 muore improvvisamente Francesco Ferrari, medico condotto 50enne, fascista dichiarato e militante, nonché caro amico di Pasquale Creazzo che lo chiama affettuosamente Ciccillo.
Ferrari era un apprezzato medico, un benefattore dei poveri, amico compassionevole di tanti, disponibile a qualunque ora per i suoi pazienti. Dagli indigenti non si faceva pagare e anzi dava del suo alle famiglie per comprare le medicine. Per tutti aveva una parola buona, confortava e curava. Non c’era casa che non frequentasse, verso tutti aveva lo stesso atteggiamento di disponibilità e gentilezza e di enorme compassione verso i sofferenti. Non c’era famiglia cinquefrondese che non avesse goduto della sua bontà d’animo e dei suoi modi premurosi.
Alcuni lo chiamavano capitano anziché dottore, per via dei suoi trascorsi di guerra. Nel 1915 infatti si era arruolato nei reparti sanità dell’Esercito e per 44 mesi con il grado di Capitano Medico aveva servito la patria sul fronte del Carso. La grandezza di questo personaggio, che aveva idee politiche opposte a quelle Creazzo, emerge dalla cronaca del suo funerale scritta proprio dal poeta e pubblicata in un opuscolo. Ecco le sue parole
«Alle ore 15 del 16 dicembre 1927 la salma di Francesco Ferrari, portata religiosamente a spalla da devoti amici muove da casa per il Corso Garibaldi, preceduta dai rappresentanti del Clero, dell’Asilo infantile, della banda cittadina e delle confraternite religiose del Carmine e del Rosario e da una confraternita della vicina Polistena.
Dietro al feretro, i congiunti e gli amici più intimi a capo scoperto. E poi a seguire i rappresentanti del Fascio di Combattimento, della sezione Combattenti, dell’ Associazione operaia, e poi ancora della Congregazione di carità, della Rappresentanza Municipale, delle Rappresentanze scolastiche e di altre associazioni, tutte munite di bandiere e di corone. Dietro a queste, le bande di Cittanova e quella di Cinquefrondi, che si alternavano nell’eseguire la mesta musica dei cortei funebri».
Creazzo ci informa della presenza di «un immenso stuolo di popolo, nel quale si notavano le più distinte personalità dei paesi del Circondario, affollati ai lati e dietro la venerata bara; mentre numerosissime gentilizie carrozze dai cavalli abbrunati ed una lunghissima fila di automobili portanti fiori freschi e corone chiudono la veramente rara dimostrazione di compianto e di lutto!
Eseguita la rituale benedizione nella chiesa del Carmine, il corteo fa ritorno sullo stesso Corso, ripassando dinanzi alla desolata casa del defunto. Non è descrivibile la scena commovente di dolore che qui avvenne: la vedova, i congiunti, i bambini − ed in braccio alla mamma sua anche il più piccolo, ancora lattante − dall’alto dei balconi mandano baci, baci infiniti al dolce e caro estinto che lentamente e per sempre si allontana dalle domestiche mura».
Sembra difficile crederci, ma ben 7 persone che presero la parola per ricordare il medico. Anzitutto il Podestà Della Scala, poi il segretario del Partito fascista Misiti, quindi il medico Moricca, il maestro Longo, il prof. Messina, infine il poeta Creazzo e il parroco don Carrera.
Creazzo ricordò così il fascistissimo medico Ferrari suo amico: «Spesso e volentieri signori, bugiarda è la parola nelle funebri onoranze. Le convenienze, il fasto del casato, le larghe parentele, il censo, le cariche, portano di conseguenza i consueti discorsi di elogio; che se non sono addirittura un oltraggio alla memoria dell’estinto, sono perlomeno un contrasto con la pubblica interna opinione. Perché, o signori, non è facile, specie per le contingenze di vita che attraversiamo in questo scorcio turbinoso di secolo, aver passata la gioventù e la vita senza lasciar dietro di sé uno strascico di rancore o un’ombra per quanto lieve di un male operato, di un malinteso. Ben altro è il doloroso straziante caso di oggi!
Il dottore Ferrari, l’indimenticabile Ciccillo, nel suo breve, fugace cammino della vita, lascia dietro di sé una scia luminosa di amore; una generale eredità di benedizioni e di inestimabili affetti.
Ma si può anche dire di non aver mai fatto male ad alcuno e non lascia quindi né odii né rimpianti. E questa è pura verità, sentita, da me, da tutti voi, o cittadini !
Quest’onda dolorante di popolo, non per le solite menzognere convenienze segue oggi dunque il lugubre, solenne funereo mesto corteo! ma solo per il vivo amore al caro estinto, che ebbe sempre il sorriso per tutti, e di tutti fu indistintamente amico.
(…) Da stamane, da quando si seppe la triste inaspettata novella, non vi è famiglia che non sia costernata; non vi è casa in cui non si versino amarissime lagrime! non vi è tugurio in cui non si senta il singulto dell’angoscia; non vi è cittadino, non vi è operaio, non vi è umile, non vi è povero che non sia trafitto dal dolore, e che non abbia impresso nell’animo il quadro penoso, straziante della cara esistenza finita; della trafitta desolata, giovane consorte e degli orbati innocenti suoi bambini che tanto, tanto amava. E su tutti i visi, non lo vedete? non lo vediamo? copiose le lagrime scorrono! Ed in tutti i volti lo squallore dell’animo si legge. Ecco le sentite onoranze, la costernazione generale per la perdita cittadina. Ecco il sincero meritato elogio, l’universale dolore.
E io che ebbi la fortuna di conoscere tanto bene e da vicino, dalla infanzia alla morte, il gran cuore del perduto fraterno amico; io che spesso vidi inumidirgli il ciglio per le umane miserie; per le sofferenze del povero, in nome degli operai, in nome dei poveri che hanno perduto in lui il simbolo dell’evangelica bontà; il benefattore e l’insostituibile prezioso amico; con l’animo affranto, reverente inchinandomi assumo la dolorosa, triste missione di pronunciare la grave e tremenda parola di Addio, Addio… e per sempre!».
Creazzo e quel biglietto segreto all’avv. Raschellà
C’è poi un altro episodio che vale la pena ricordare, a molti probabilmente ignoto.
Il 9 marzo del 1954 il poeta manda un affettuoso biglietto di ringraziamento all’avv. Francesco Raschellà, giovane avvocato, fiero politico anticomunista, fresco iscritto alla Democrazia Cristiana, e che molti anni dopo diventerà anche sindaco di Cinquefrondi. Il papà del giovane avvocato era un professionista noto in paese, per decenni veterinario e iscritto al partito fascista. Lui in realtà era socialista e monarchico. A Mammola, suo paese di origine, fu segnalato alle forze di polizia perché dopo l’assassinio di Matteotti organizzò una colletta in aiuto della famiglia. Prese la tessera del Pnf perché a quel tempo no tessera no lavoro.
Torniamo al biglietto di Creazzo: per quale motivo il poeta ringraziava l’avv. Raschellà ? pochi giorni prima di quel 9 marzo 1954 uno dei nove figli del poeta cinquefrondese fu assassinato ad Anoia. Un omicidio brutale, Adone Creazzo era una persona mite e benvoluta, aveva 38 anni. Il papà dopo i funerali fece stampare un cartoncino commemorativo nel quale così scriveva del figlio: “Adone ebbe tal nome perché nacque divinamente bello. E nonostante 10 lunghi anni di battaglie Africane, portava come un’aureola il viso ingenuo, sereno, sorridente come un fanciullo dagli occhioni neri, affascinanti che lucidamente esprimevano la calma dello spirito, l’angelica bontà del suo cuore d’oro, l’amore infinito per l’umanità tutta. Ebbe il culto della famiglia, ricca di fratelli, di sorelle e nipoti che adorò come un santuario sul cui altare a divinità elevò gli amati genitori. Ebbe per oggetto di speciale affetto la nidiata dei bimbi ella sua cara e affaticata sorella Aurora ! Ma quel cuore d’oro, orribile a dirsi, fu inopinatamente trafitto a morte dalla mano assassina di chi, più di tutti, doveva essergli grato…!”.
Creazzo volle che ai funerali fosse proprio il giovane avvocato Raschellà a tenere l’orazione in ricordo di quel figlio tanto amato. Avrebbe potuto chiamare chiunque fra i suoi amici o fra quelli della sua parte politica, certo non mancavano le personalità in grado di assolvere a quel compito. Invece scelse il giovane legale, accanito democristiano anticomunista, peraltro figlio di uno che aveva manifestato pubblicamente simpatie politiche per il fascismo, sia pure per necessità lavorative.
Sul cartoncino commemorativo inviato dal poeta al giovane legale si legge la dedica autografata del poeta: ‘All’Illustre avv. Francesco Raschellà che con fraterno sentimento espresse le lodi funebri del mio perduto figliolo, in memoria offro”.
Segno, ove ce ne fosse bisogno, che Creazzo, al di là di ogni altra considerazione, fu una grande persona perché sapeva distinguere fra ideali e ideologie politiche da una parte, e rapporti personali e amicizia dall’altra. Uomo d’altri tempi. E quando nel partito comunista cinquefrondese le cose si misero in un modo che a lui evidentemente non piacque, prese cappello e se ne andò. Continuando per conto proprio la sua battaglia politica antifascista, con un occhio alle idee e un altro alla realtà. Un gigante.
(alcune di queste vicende sono raccontate nel libro ‘Francesco Della Scala e altre storie dimenticate di Cinquefrondi’,)
Carissimo Francesco, approfitto di questo ulteriore post su Pasqualino Creazzo, per esprimerti i miei sentimenti di stima profonda per il lavoro certosino che stai conducendo e che ci rende orgogliosi di essere cinquefrondesi dopo anni di sudditanza psicologica verso altri comuni. Voglio anche ringraziare Mimì per i fin troppo generosi apprezzamenti nei miei confronti.
Io non sono uno storico, né ho questa velleità, sono solo un curioso e la storia del ventennio a Cinquefrondi mi ha sempre incuriosito. Forse perché nella mia infanzia ho avuto la possibilità di frequentare con una certa assiduità gli ambienti postfascisti nonché quelli socialcomunisti. Infatti la mia infanzia è trascorsa sia giocando, ad esempio, nel giardino di casa Argirò, in compagnia di Giovanni, nipote romano dell’ avvocato, che frequentando il circuito diffuso delle botteghe artigiane. In questi posti registravo le diverse posizioni degli adulti che mi circondavano e ne carpivo inconsapevolmente i ricordi . Andavo a tagliarmi i capelli da Michele Scicchitano ed ogni volta era il terrore. Puntualmente arrivava il maresciallo Mercuri, proveniente dal circolo degli gnuri sbuffando come una ciminiera, con le sue celebri sigarette Serraglio, e mi riempiva di scappellotti che inutilmente cercavo di schivare. Ma ci fu pure un episodio che ricordo vividamente. Non potevo avere, a conti fatti , più di 7 anni. Ero “arroccolato” ( Mimì prendi nota x il dizionario ) su un marciapiede di via Cavour tra la trattoria di Macedonio e il calzolaio mastr’Antoni, note postazioni comuniste. Certamente eravamo alle soglie dell’ estate, durante le vacanze scolastiche e probabilmente era un fine settimana perché avevo intravisto Mico di Bono. Questi ogni sabato faceva il giro delle 100 botteghe per vendere l’unità, puntuale come un esattore delle tasse, con quei grandi occhiali neri da funzionario del Politburo. In verità era un amico fraterno di mio padre ed era una persona buona e gentile con quel timido sorrisino sempre stampato sulle labbra. Stavo leggendo un romanzo, di cui ricordo ancora titolo ed autore, gentilmente prestatomi dalla mitica sartoria – biblioteca di Ciccio Amato, primo cugino di mio padre. Era certamente una delle mie prime letture. Mentre ero a capo chino si avvicinò Pasqualino Creazzo sorpreso a vedermi leggere in così giovane età. Allora Creazzo era un mito fra quelle botteghe anche se non mancavano anche critiche feroci ( che non riporto per non dare sazio al caro Mimì). Ci fu un lungo dialogo tra “il vecchio ed il bambino” culminato in una promessa ( da marinaio ) da parte del poeta. Raccontai l’ episodio ai miei genitori che ovviamente non mi credettero e mi sbeffeggiarono così: figuriamoci se Pascalino da retta a nu muccusu. Sono sicuro che se l’avessi raccontato ad Anita Creazzo, che era di famiglia a casa mia, avrei avuto sicuramente maggiore fortuna, perché in quel dialogo c’erano dei particolari che Anita avrebbe potuto agevolmente verificare.
Col passare degli anni, a questi ricordi personali si aggiunsero letture specifiche direttamente dei protagonisti dell’epoca, senza la mediazione degli apologeti di professione.
Quindi hanno completato le mie conoscenze sia la desecretazione degli archivi, ma soprattutto i diari di qualche illustre confinato politico che aveva annotato fedelmente gli anni trascorsi forzatamente a Cinquefrondi, descrivendone l’animata quotidianità con occhi forestieri ed oggettivi, lontano dalle faide paesane. Ma questa è un’altra storia, ancora ignota per la maggior parte dei cinquefrondesi.
carissimo, grazie per le tue parole e il tuo apprezzamento. In realtà neanch’io sono uno storico, continuo semplicemente a esercitare la mia professione di giornalista sulle vicende paesane del passato. E provo a raccontarle con onestà e correttezza, senza omettere e senza aggiungere nulla. Non ho elementi personali da aggiungere alla storia di don Pasquale Creazzo, ero appena nato quando lui morì. Ma andando a ritroso sulle sue tracce e su quelle del fratello, il maestro Carlo, mi si è aperto un mondo, perchè ho scoperto che a Cinquefrondi sono vissuti due grandissimi personaggi, molto migliori e abbastanza diversi da come ci sono stati fatti conoscere dall’agiografia, forse troppo interessata alla politica.
Le tre interessanti e sorprendenti pagine dedicate alla figura di Pasquale Creazzo meriterebbero di concludersi senza il mio commento. Basterebbero le chiare chiose più il suggestivo aneddoto personale di Franco Tropeano e l’autorevole conclusione di Francesco Gerace, al quale rinnovo non solo gli apprezzamenti per il lavoro svolto ma soprattutto per averci fatto prendere conoscenza dell’agiografia affrescante ed omissiva che si è protratta per tanto tempo sulla figura complessiva di Pasquale Creazzo. Egli esce ingigantito da questo lavoro, ne esce non più come figura di parte alla quale si è voluto cucire un vestito che lo ha- per certi versi- sottratto all’appartenenza a tutta la storia e alla varia umanità che Cincrundi ha mostrato nei primi sessant’anni del Novecento. Quanto è emerso dalle appassionate pagine di questo sito, dedicate alla figura di Don Pasquale Creazzo è l’onestà intellettuale e il civile confronto al quale compartecipo con piacere e con il mio pensiero libero. Sia questo argomento foriero di altre occasioni di dibattito. Ringrazio Franco Tropeano per il cenno che mi rivolge sulle parole dialettali e in merito ad “arrocculato” e gli assicuro che è veramente impegnativa la selezione delle parole da proporre in ogni puntata. E questo perchè la rubrica che mi appassiona non ha le velleità di essere un dizionario, chè sarebbe interminabile. Dopo 18 mesi sono ancora alla conclusione delle parole con la lettera M.
Un caloroso saluto a Francesco Gerace e a Franco Tropeano e a tutti i lettori.