Questa notizia è stata letta 820 volte
Cari lettori oggi vi proponiamo una storia straordinaria e incredibilmente messa da parte dalla memoria pubblica cittadina. Il protagonista si chiamava Giuseppe Schiavon, un falegname veneto con la terza elementare che un giorno divenne anche sindaco di Padova. Ma prima di quel giorno ne passò tante per via della politica. Era infatti un attivista di idee comuniste e durante il fascismo entrò in contrasto con il regime; fu condannato al confino e spedito in esilio a Cinquefrondi. Vi restò per qualche anno e qui scrisse un lungo diario che poi è diventato un libro. In esso c’è la cronaca minuziosa della sua storia da confinato a Cinquefrondi, con molti particolari sulla vita del nostro paese.
Ce ne parla il medico-storico Francesco Tropeano con un racconto avvincente e ricco di dettagli curiosi e significativi, finora inediti. Prima ancora che il conflitto politico-ideologico, che nei diari tutto sommato appare sullo sfondo, ciò che colpisce è l’umanità sofferente ma sempre viva e perfino allegra e ironica di quell’uomo costretto a vivere a mille km da casa. Forse arrivò a Cinquefrondi con qualche preoccupazione, invece trovò da noi una seconda patria. Il paese infatti lo accolse con rispetto, a partire dai suoi avversari politici: il segretario comunale Reitano gli fece subito togliere le manette e, come gesto di riguardo, volle presentargli perfino il Podestà; i vicini di casa gli portavano ortaggi e frutta per aiutarlo a sopravvivere; i suoi amici e compagni di partito nelle botteghe artigiane coltivavano con lui amicizia e lunghe discussioni di politica. Quella di Schiavon è una storia bellissima che siamo felici di poter raccontare ai cinquefrondesi. Buona lettura
di Francesco Tropeano
Proseguiamo il nostro viaggio a ritroso nella vita cinquefrondese. Questa volta la nostra capsula del tempo si immergerà in acque più profonde, fino agli anni ’30, alla ricerca di piccole storie nobili nascoste nelle pieghe sudaticce di quel corpaccione vivo – spesso gentile, talvolta osceno, ogni tanto eroico- che è la nostra storia popolare.
Sarà un viaggio lungo, ma il carburante documentale è ottimo e abbondante. Proviene da diverse fonti, dall’ album della mia famiglia, dalle cronache di una parrocchia padovana, dagli archivi centrali di polizia, dalle Novelle di Aldo Polisena, dalle foto e dai ricordi di Giulio Pittalis, da quell’autentica miniera d’oro di scritti, foto e tradizione orale che Michele Manferoce custodisce e che ha mirabilmente rappresentato, nel suo docufilm “ C’era una volta Cinquefrondi “.
Ma, in questo caso, il grosso del carburante proviene da quattro voluminosi quaderni di memorie del più illustre confinato politico che il nostro paese abbia ospitato e dagli studi di Tiziano Merlin, riferimento storico della cultura popolare padovana. Infine il necessario additivo per rendere il motore della capsula fluido e pulito ed evitare ingolfamenti. Lunghe telefonate con Francesco Gerace, i preziosi suggerimenti, la sinergia di comuni ricordi, la condivisione culturale di obiettivi ed impostazioni.
12 ottobre 1936 : Esterno giorno
Piazzale Stazione, sono le 10 di una mattina di inizio ottobre, e Giuseppe Schiavon ha giusto 40 anni quando scende dalla littorina e si avvia mestamente verso il Municipio. Ha le manette ai polsi, legate con un lucchetto ad una lunga catena tenuta ben stretta da uno dei due carabinieri che l’accompagnano. In Comune l’attende il segretario comunale che gli fa subito levare le manette, si fa consegnare il documento d’identità e lo invita a tornare a mezzogiorno per presentargli il Podestà. Appena esce dal Comune apostrofa così i due carabinieri : “Avete visto? Non sono un delinquente, potevate usare più riguardo nello stringere le manette. Sarebbe stato più umano! “.
Giuseppe Schiavon è un confinato politico padovano con un lungo curriculum antifascista. Proveniente dal Partito Socialista, insieme con altri 22 iscritti aveva fondato il Partito Comunista a Padova.
Nel 1926 è nel Tribunale di Milano imputato con tutti i vertici nazionali del Partito Comunista, da Togliatti a Camilla Ravera. Proprio nel carcere di San Vittore conosce Gramsci.
Dal carcere passerà al confino in provincia di Potenza, qui viene accolto da un altro confinato Eugenio Musolino, avvocato di Reggio Calabria, che gli procura un alloggio e gli dà le dritte giuste per sopravvivere in quel gelido paesino della montagna potentina. Ne nascerà una forte amicizia.
Nel 1932 è di nuovo libero per l’amnistia decennale e torna a Padova dove riprenderà la sua attività di falegname per mantenere la moglie e i due figli. Ma viene di nuovo arrestato nel 1936 mentre è in procinto di espatriare in Spagna per combattere a fianco delle milizie internazionali nella guerra civile. Viene condannato a cinque anni di confino che passerà per tre quarti a Cinquefrondi. Il confino è interrotto nel 1939, mentre esplodono i primi focolai della Seconda Guerra mondiale. Si guadagnerà una medaglia d’oro al valor militare e quando la guerra si trasformerà in Resistenza, sarà a capo di una brigata partigiana col nome di battaglia Comandante Cristo. Diventerà una figura leggendaria in tutto il Veneto e nel 1946 sarà il primo sindaco di Padova dopo la Liberazione. Nella città del Santo sarà amministratore per diversi anni ricoprendo anche la carica di vicesindaco e di assessore. Finita la sua carriera politica si trasferisce a Ferrara da pensionato. Muore a Padova il 18 Aprile 1989. E’ sepolto nel Monumento – ossario ai Caduti eretto nel Cimitero Vecchio di Padova.
Quando viene trasferito da Cinquefrondi per un paesino della Sila scrive : “ Accompagnato da due carabinieri e senza manette perché dovevo sorreggere mia moglie malaticcia, con un pulcino in tasca ed assieme ad un altro confinato, con grande rammarico ho lasciato quel paese tanto ospitale sia da parte della popolazione che degli amici e dei compagni”. Ripenserà spesso e per lungo tempo al suo soggiorno a Cinquefrondi, ricordi venati di una certa malcelata nostalgia. Già da sindaco di Padova si affanna a scorrere i risultati elettorali delle elezioni politiche a Cinquefrondi . Dirà, riferendosi ai risultati del ‘ 48 e del ’53 : “Alle prime elezioni ed alle successive la vittoria elettorale fu del PCI” e sicuramente ammiccando penserà : è anche merito mio.
Oltre che nei quaderni con copertina nera e bordi rossi, ripercorre gli anni di confino a Cinquefrondi anche negli appunti di un block notes, compilati nel 1964, aggiungendo particolari che gli erano sfuggiti nella foga della prima stesura.
Infine, quando ritorna a Padova dopo gli anni del confino racconta questo episodio, molto gratificante nei nostri confronti. Siamo nell’ottobre 1939, è appena sceso dal filobus, preso alla stazione ferroviaria di Padova, e risale su quello che lo porterà alla sua casa natìa nel quartiere Voltabarozzo. “ Nel filobus trovai persone e lavoratori che mi conoscevano, era l’orario di ritorno dal lavoro ed erano desiderosi di conoscere le mie condizioni e volevano sapere come me l’ero passata in Calabria, se fossi stato trattato male dai calabresi. Io ovviamente esternai tutta la mia riconoscenza per i calabresi e per il modo benevolo con cui ero stato accolto. Ad un tratto, un uomo che mi stava a pochi passi di distanza ruppe il silenzio, meravigliando tutti quei lavoratori presenti disse : Finalmente trovo una persona che dice la verità sui calabresi!” Con quell’uomo scenderanno alla stessa fermata, questi lo ferma, gli stringe la mano e si presenta: sono il poliziotto a cui hanno ordinato di seguirvi!
Il paese delle cento botteghe
Il suo arrivo a Cinquefrondi, preceduto dalla fama di impenitente guerrigliero comunista, era fonte di molta inquietudine per i gerarchi del fascio: istituzioni e forze dell’ordine erano state allertate. Schiavon arriva a Cinquefrondi, dopo un viaggio allucinante, ma tutto sommato già il paese gli fa una buona impressione. Sarà stata l’accoglienza garbata del segretario comunale, sarà stato il senso di libertà per essere finalmente senza manette, sarà stato il clima tiepido sebbene fosse già autunno, mentre lui aveva lasciato Padova immersa nelle brume nebbiose.
Per qualche giorno prende alloggio dall’unico affittacamere del paese, che qualche anno più tardi il cap. Schauffler definirà pomposamente Hotel, ma gli assegnerà solo una stella.
Insieme ad un altro confinato politico milanese affitta una casetta in zona Rosario. Era una casa vuota da anni perché il proprietario era morto di tubercolosi e nessuno ci voleva abitare. “La feci disinfettare, imbiancare e pulire da cima a fondo. Era completa di mobilio per cui andammo subito ad abitarla”. Hanno così la loro casetta autonoma . Una stanza al pianterreno ed una al primo piano. Due camere con vista. E che vista: l’orinatoio comunale e relativa ‘nchianata’ omonima.
Cominciano a farsi da mangiare e quella casetta diventa il punto di riferimento anche per altri confinati . Schiavon stringe una particolare amicizia con uno di loro, Calogero Diana, un agrigentino di Favara, zolfataro, classe 1907, comunista. Ma frequentano la casa anche Giuseppe Silvestri detto l’avvocato, un lucano classe 1902 in realtà calzolaio e Mimmo Capodiferro di Gioia del Colle, contadino comunista, classe 1891.
In questa casetta Schiavon si sente proprio a suo agio ed è qui che gli viene l’idea. Deve cominciare a scrivere un diario, un diario della sua vita, presente e passata. Si compra un quaderno, quello classico a quei tempi con copertina nera e bordi rossi. Ogni mattina tira fuori un banchetto , lo piazza fuori davanti all’uscio ( tanto mica fa freddo!) si siede e comincia a scrivere e scrivere. Alla fine riempirà ben quattro quaderni di 100 pagine ciascuno. La gente lo vede, tutti i giorni a testa china su quei quaderni : chissà cosa scrive di tanto importante, forse è un notaio! E per la gente del Rosario sarà ‘u notaru . Invece è arrivato a malapena alla terza elementare. Allora la gente comincia ad avvicinarsi. Chi, analfabeta, per farsi scrivere le lettere per mariti e figli emigrati, chi addirittura per consigli nelle piccole liti di vicinato. Ecco come la racconta lui, con la sua scrittura di getto, “praticamente senza mai rileggere e senza alcuna preoccupazione letteraria, tutto teso com’è ad esprimere con l’inchiostro il ricordo di fatti e di emozioni”, ci suggerisce Tiziano Merlin, eminente storico veneto e biografo ufficiale del futuro sindaco. “ La popolazione fu sempre brava con noi, diventammo paesani –sottolinea Schiavon – ho iniziato a dare ascolto a queste persone che avevano bisogno di scrivere ai familiari emigrati o di farsi leggere le lettere in arrivo. Ho dato anche consigli su eventuali contrasti tra famiglie e spesso sono riuscito a tranquillizzare situazioni tese”.
L’introduzione al primo dei quaderni, trasformato in diario, spiega i motivi per cui si è messo a scrivere: “Avrò la pretesa di scrivere un libro di carattere politico, che potesse servire di cultura e propaganda? No! Non ho forza intellettuale sufficiente per arrivare a tanto; mi limito solo a narrare fatti più o meno dolorosi della mia vita, vicende dolorose sopportate da me e dalla mia famiglia e per quanto mi sia poco attraente dedicarmi a tale opera, per le troppe mie memorie che sono state scritte e che esistono e che presero la forma di una mania. Io scrivo per i miei figli e scrivo anche per occupare queste noiose giornate di confino, condannato all’ozio.”
Nei suoi diari ha sempre sostenuto che solo due persone lo odiavano in paese : l’avvocato segretario del fascio ed un giovane prete che incontra i primi giorni dopo l’arrivo a Cinquefrondi . Ecco come racconta questo incontro. “ Mi stavo allontanando dal Comune col pensiero di provvedere a qualcosa da mangiare, che subito mi si avvicinò un prete dicendomi: Siete voi il nuovo confinato che qui si attendeva? La domanda non fu pronunciata con toni riguardosi, piuttosto in maniera sprezzante, boriosa, e proseguì dicendo – Anch’io sono un sognatore come lo scrittore Campanella che sperava con le mani di raccogliere le stelle!- Non conoscevo niente di quello che diceva, ma intuii dove voleva arrivare ed ebbi una risposta che probabilmente lo colpì. Risposi : Si, sono un sognatore, ma non di quelli che cercano le stelle, ma di quel gruppo di pazzi che un giorno gli storici riconosceranno come i precursori della nuova vita di domani! Se ne andò subito senza rispondermi e senza salutarmi come aveva fatto nell’avvicinarsi. In seguito lo vidi qualche volta, ma nessuno dei due cercò l’avvicinamento.” In un’altra parte del diario lo descrive come un prete piuttosto giovane. Sappiamo che in quel periodo erano presenti, l’arciprete e due sacerdoti. Il prete in questione non poteva essere l’arciprete per 3 evidenti motivi : 1) Don Luigi Varamo non era più tanto giovane (classe 1864) 2) era schedato nel Casellario Politico come antifascista 3) dalle cronache dell’Associazione Sacro Cuore di Gesù di Gerocarne, si evince che in quel periodo l’arciprete di Cinquefrondi, probabilmente per motivi si salute, era spesso assente e delegava molte incombenze al giovane vicario coadiutore Don Domenico Meduri. Sarà lui il prete che apostrofa scorbuticamente Schiavon?.
Mano a mano che passano i giorni, Schiavon diventa familiare in tutto il Rosario, ma iniziano a riconoscerlo anche negli altri quartieri, soprattutto a S.Maria, luogo della movida, ma anche del gossip cinquefrondese per le numerose ed affollate cantine che la popolavano. La mattina prima di mettersi a scrivere , Schiavon fa una piccola passeggiata. S’ infila nel cafio, sbuca davanti all’entrata della Chiesa Matrice e quindi passa dai suoi amici paesani soprattutto dai due fratelli falegnami, dal calzolaio e da quello che aveva anche una bottega di calzature. I fratelli falegnami erano probabilmente Vincenzo e Michele Longo Elia (il padre del caro Aldo), artigiani di lunga fede socialista ( fratelli del nonno materno di Giulio Pittalis ) ed il negozio di calzature, pelle e cuoio potrebbe identificarsi con quello di Giambattista Mileto o di Bellocco.
Mentre faceva queste brevi passeggiate il suo pensiero andava ossessivamente alla moglie e ai due figli rimasti a Padova ed accarezzava l’idea di portarseli a Cinquefrondi. Ovviamente questo non era automatico. C’era una bella trafila burocratica da seguire e la richiesta di ricongiungimento doveva partire dalla moglie ed essere autorizzata da diverse autorità del regime, fino al Ministero Dell’Interno.
Le domeniche invece, dopo aver registrato la propria presenza in Comune, Schiavon spariva dal paese : confesserà solo al suo diario il vero motivo. “ La domenica era giorno di riposo per tutti i paesani e confluivano nell’unica strada centrale per la passeggiata, percorrendola da un punto all’altro per ore ed ore, raccontandosi i propri problemi. Ebbene io dovevo tutte le domeniche prendere la strada della montagna per sottrarmi alla loro richiesta di bere, e si doveva bere, altrimenti si offendevano. Ma a me il bere faceva male.” Tornava al paese prima del tramonto, evitava accuratamente di passare davanti alle cantine, e si tappava in casa. Comunque i confinati non potevano circolare dopo il tramonto.
Aprile 1937. Maledetta primavera
Così procedevano le sue giornate, facendosi bastare quelle 5 lire del reddito di cittadinanza fascista per i confinati, anche grazie alla solidarietà dei cinquefrondesi che quasi quotidianamente gli portavano qualche cesto di frutta o di ortaggi. Di solito pranzava con il suo coinquilino, l’operaio milanese, discutendo di politica ed in particolare delle vicende del partito comunista. Altre volte si univa anche qualche altro confinato e addirittura anche qualche paesano. Menù fisso : Pasta e patate. Piatto di cui Schiavon si sentiva esperto cuoco. Almeno una volta però viene abbandonata la dieta, loro malgrado vegana , e si pasteggia alla grande in un affollato banchetto. Schiavon ne parla, ma non so perché, lo fa con occhi bassi ed un leggero rossore gli colora le guance.
“Un giorno rientrando a casa, vado per controllare la pentola che bolliva e mi accorgo che dei due pezzi di carne che avevo messo, ne era rimasto uno soltanto. Non dissi niente al mio compagno milanese, ma qualche settimana dopo accadde la stessa cosa. Allora affrontai subito l’argomento con lui, forse in modo un po’ inquisitorio. Mi giurò che era completamente all’oscuro di tutto. Allora cominciai a pensare che il ladro probabilmente era qualche gatto che entrava in casa dal cortile attraverso qualche pertugio. Dopo una settimana facemmo la prova ( dico dopo una settimana perché in paese ammazzavano una sola vitella la settimana). Accendiamo il fuoco con la legna di un tronco e mettiamo a bollire la pentola, ci nascondiamo pronti a prendere in trappola il gatto. Intanto avevamo sigillato un vetro rotto nella camera superiore per impedire un eventuale fuga dai tetti. Infatti entrarono ben due gatti ed alla nostra apparizione scapparono velocemente oltre la scala verso la camera superiore. E qui finirono in trappola perché non poterono più sgattaiolare dal vetro rotto. Un compagno siciliano, di cui parlerò più avanti, li uccise con un coltello ed ancora caldi tolse loro la pelle. La sera stessa si cucinò i due fegati. Ma della carne cosa ne potevamo fare? Io avanzai la proposta di cucinare i resti dei due gatti, di invitare i confinati ed i compagni più cari del paese.
Ovviamente la proposta passò a furor di popolo. La mattina iniziai a preparare e cucinare e ci trovammo ben presto in larga compagnia. Il primo piatto con la pasta era venuto buono, ma al secondo piatto, che era discretamente cotto, gli invitati cominciarono a dubitare, anche vedendo che io difficilmente riuscivo a mangiare. Già prima di lasciarci avevano capito ! Se ne andarono senza rimproverarci, ma il giorno dopo già tutto il paese sapeva e loro si stettero chiusi in casa per diversi giorni”
Ovviamente possiamo immaginare le grasse risate nelle rughe e nei vicoli del paese delle cento botteghe. Tuttavia questo episodio non intaccò più di tanto il rapporto con i paesani . Questa familiarità con la popolazione, questo girovagare di Schiavon per botteghe artigiane, parlando apertamente di politica, in toni ovviamente antifascisti, questa sua autorevolezza notarile che cresceva ogni giorno di più, non erano certamente graditi alle gerarchie locali del partito fascista.
L’undici aprile 1937 accade il patatrac.
Giuseppe Schiavon viene arrestato. Viene arrestato dal Comandante dei vigili urbani in flagranza di reato. Un reato turpe, terribile, scandaloso: aveva osato entrare nell’unico bar del paese e si stava pure bevendo un caffè, peraltro in piedi! Non poteva restare libero un minuto di più, viene quindi condotto in carcere immediatamente, in attesa del processo che avrebbe fatto giustizia di cotanto oltraggio. Le fascistissime leggi promulgate all’indomani dell’attentato a Mussolini proibivano infatti ai confinati di frequentare locali pubblici.
“ Una sera, come sempre avveniva, prima di ritirarsi in casa al calar del sole, come disponeva la carta di permanenza sulla vigilanza, mi recai con il mio compagno milanese, per prendere un caffè, in piedi, per pochi minuti, nell’unico locale del paese dove vendevano il caffè, essendo tutti gli altri locali adibiti alla vendita di vino. Immediatamente si presentò il Comandante dei vigili comunali che ci dichiarò in arresto per violazione della carta di permanenza. La nostra protesta per l’assurdità del provvedimento non servì a nulla e dovettimo seguirlo fino al carcere mandamentale, anche questo al centro del paese.”
Così Schiavon finisce in galera. Ma si farà sentire anche qui e cercherà inutilmente di difendersi al processo in pretura dove dovrà farlo da solo, perché ben tre avvocati “ del luogo” , uno dietro l’altro, con grande codardia ed accampando scuse banali rinunceranno ad assisterlo. Sarà una odissea. Ne continueremo a parlare la prossima volta.
Con il cuore e la mente invasi dagli ideali che dalla Russia volevano invadere l’Europa, Giuseppe Schiavon, artigiano veneto, veniva mandato al confino dal regime fascista nel nostro paese dove, come racconta Franco Tropeano, giungeva il 12 ottobre del 1936. Mentre Schiavon visse da confinato a Cinquefrondi come Franco racconta, qualche mese prima, esattamente il 17 settembre 1936, i suoi compagni comunisti Carlo Costa, Vincenzo De Lazzer, Vittorio Flego, Guglielmo Pagani, che avevano preferito abbandonare o scappare dall’Italia per vivere nella Russia Sovietica, venivano arrestati dagli agenti di Stalin, accusati di attività controrivoluzionaria e condannati dai 6 ai 10 anni di lavori forzati. Uno di loro, De Lazzer, non li scontò interamente perchè fu fucilato nel 1941.
Quelli sopra citati non furono i soli comunisti annientati dal comunismo che sognavano. Tra il 1933 e il 1935 furono 33 i comunisti italiani arrestati in Russia, fra essi: Giovanni Bellusich,Rodolfo Bernetich, Ezio Biondini, Otello Gaggi, Emilio Guarnaschelli,Michele Mani-Saetoni, Gino Martelli, Ottocarro Tlustos, dopo anni di torture,persecuzioni e arresti, nel 1936 furono condannati ad altri cinque anni di lager. Fra loro, Guarnaschelli fu fucilato nel 1938, Mani-Saetoni morì nel lager nel 1942, Gaggi nel 1945. Ezio Biondini liberato dal lager nel 1946 tornò a Mosca nel 1950 e si rivolse all’ambasciata italiana per essere rimpatriato in Italia. Sorvegliato dalla polizia politica comunista venne arrestato per l’ennesima volta e condannato a 25 anni di lager,dove morì mentre scontava la condanna. Comunisti uccisi dal comunismo in tempi in cui ancora la seconda guerra mondiale non era scoppiata. Questa è solo una minima parte dell’orrore di un sistema, di un’ideologia la cui fonte ispiratrice era il leninismo e l’esecutore lo stalinismo.
Giuseppe Schiavon,l’artigiano padovano anti fascista, in Italia e nel nostro paese ha subìto a causa del fascismo quanto i suoi compagni in Russia patirono a causa del comunismo?
Vorrei proseguire, per par condicio, il ragionamento di Mimì Giordano senza perdere di vista il nostro paesello. Certamente molti comunisti italiani, inseguendo i propri sogni, illusi dalla propaganda ideologica, andarono in Russia e trovarono invece il loro peggiore incubo. Stalin si è macchiato di grandi crimini, anche razziali, ma nel nostro piccolo non possiamo scagliare la prima pietra. Alcuni eminenti fascisti che non volevano proseguire la guerra a fianco della Germania trovarono la morte dopo processi la cui sentenza era scritta in partenza . E non erano oscuri funzionari di partito che dissentivano da Mussolini nel bar dello sport di Agostino Pronesti’ o nel bar di Ferraro dove bevve il fatidico caffè il nostro Schiavon. Erano membri autorevoli del Gran Consiglio del Fascismo, il massimo organismo politico del PNF ( peraltro infarcito di massoni malgrado le chiacchiere mussoliniane contro le “demomassoplutocrazie”). Mi riferisco ad Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli, Carlo Pareschi e Galeazzo Ciano fucilati dopo un processo farsa in pieno stile staliniano. Galeazzo Ciano, genero (non cognato, come si usa adesso) di Mussolini, che non si decideva a morire dopo la fucilazione, fu finito con un colpo alla nuca. Il flop della Repubblica di Salò non fu solo militare, le enunciazioni erano le stesse del programma del 1919 di piazza S. Sepolcro e del ’21 al teatro Augusteo. Ma direbbe qualcuno: ” caro Benito hai avuto 20 anni di potere assoluto, perché non hai applicato quel programma? Ti sei tenuto il re e la sua corte dei miracoli, hai decuplicato i privilegi per gli industriali del nord e gli agrari del sud ( come avevano fatto i piemontesi prima). A questi signori hai anche evitato grattacapi, fallimenti, scioperi e contestazioni; hai agito come un cane da guardia dei poteri forti”. L’ entrata in guerra non era ineluttabile come non lo è stata per l’ altrettanto fascista Spagna che aveva molto più ” abbrigazioni ” di noi verso Hitler, per l’ aiuto decisivo avuto dal nazismo nella guerra civile. Nel Settembre 1943, con il rovesciamento della alleanze, i soldati italiani si ritrovarono avversari degli ex alleati tedeschi. Salvo pochi che accettarono di unirsi ai nazisti, la maggior parte ( circa 600mila) furono deportati in Germania. Molti soldati cinquefrondesi, i più “fortunati”, furono imprigionati nei lager tedeschi. Chi non fu fucilato per strada e chi non morì di stenti tornò a Cinquefrondi dopo anni. Sono tornati a casa circa una cinquantina. Alcuni erano ufficiali, ma la stragrande maggioranza era carne da cannone della fanteria. Per chi ne dubita, la Croce Rossa, che li riporto’ in Italia, ne ha dettagliatamente elencato generalità, grado militare, numero di internamento e lager dove erano stati rinchiusi.
Rispondo a Franco Tropeano, e lo faccio senza dare alcuno spazio ad intenzioni polemiche o a pretesti per rinfocolare rancori ideologici. Non voglio neanche azzardare di scrivere sulla guerra civile e sulle tragiche giornate dalle quali noi del meridione d’Italia fummo, per fortuna, risparmiati. Esprimo e ribadisco solo un concetto: l’8 settembre 1943 fu il giorno dell’infamia e del tradimento badogliano e della casa Reale e fu l’origine del disastro che avvenne dopo. “TO BADOGLIATE”, fu un verbo poi coniato dagli stessi inglesi che conobbero il generale Pietro Badoglio. E quel verbo significava tradire,fare il doppio gioco. E quanto avvenne non fu un “rovesciamento di alleanze” come lo definisce Franco, ma un vero e proprio tradimento del sovrano e di Badoglio nei confronti di tutti i combattenti e degli italiani; fu il disonore e la morte della Patria. L’atto che in democrazia parlamentare o partitocratica come la nostra si chiama “rovesciamento di alleanze”, nella guerra si chiama tradimento, venir meno a un giuramento bagnato dal sangue comune versato sui fronti di battaglia. Tanti italiani vollero reagire dando vita alla Repubblica di Salò, la R.S.I. Altri si schierarono sul fronte opposto. Non furono pochi, nè gli uni (mezzo milione di soldati nella RSI,con circa 300 mila giovanissimi) nè gli altri fra le file della Resistenza. Io oggi, da Cristiano,Cattolico, Apostolico e Romano dico: onore a tutti quelli che lo fecero in buona fede, con il sacrificio della propria vita.
Vorrei adesso far osservare qualcosa in merito a quanto in modo pertinente Franco scrive sulla mancata realizzazione del programma fascista di socializzazione e sul reale ostracismo che l’industria, grande e piccola e la borghesia soprattutto agraria misero in atto. Fu così, ma bisogna tener presente che l’Italia visse di riflesso la crisi mondiale del 1929,la cosiddetta crisi della Borsa,che ebbe impatto in molti Stati d’Europa. L’Italia la affrontò meglio di tutti, dando via alle opere pubbliche,stimolando la collaborazione fra le industrie produttrici,rafforzando l’agricoltura. Fulvio Conti, docente d Storia Contemporanea all’Università di Firenze scrive”..nel 1931 il governo aiutò le imprese in difficoltà attraverso la creazione di una sorta di Banca pubblica, l’I.M.I. ; due anni dopo,nel 1933 istituì l’I.R.I. (istituto per la Ricostruzione Industriale)..” Aggiungo io che il capo del governo fascista nominò Presidente dell’IRI Alberto Beneduce, matematico ed economista senza tessera del PNF, di idealità socialiste al punto che- potrà sembrare paradossale- chiamò le tre figlie, una Idea Socialista, l’altra Italia Libera e l’altra Vittoria Proletaria. Beneduce era un uomo e politico pragmatico e realista e l’IRI sostenne le politiche del governo che intanto metteva in riga la Banca Commerciale Italiana al servizio degli interessi della Nazione. L’I.R.I. fu un ente che rimase anche dopo la caduta del regime. Finisco col trascrivere quanto a suo tempo scrisse Mihàly Andras Vajda, un intellettuale di sinistra ungherese”…lo sviluppo ed il fiorire delle industrie dell’automobile, della seta, la creazione di un moderno sistema bancario, la prosperità dell’agricoltura, la bonifica di notevole aree agricole, il rapido progresso dell’Italia dopo la 2^ guerra mondiale, sarebbe impensabile senza i processi sociali iniziati durante il periodo fascista”
Per rimanere nella nostra regione, nel 1929 Sant’Eufemia, oggi Lamezia Terme aveva 32 km di ferrovia a scartamento ridotto, l’Italia 5.400 acquedotti, molti centri terremotati del 1908 erano stati ricostruiti, 100 km di strade e qualche anno dopo le Ferrovie Calabro-Lucane. Nel 1932, novant’anni addietro, su progetto di Marcello Piacentini Reggio Calabria aveva il Museo Archeologico. Per continuare l’elenco delle opere compiute in Sila a partire dal 1927 servirebbero tante righe ancora e pazienza per leggerle e non voglio rubare tempo ad altri argomenti. Ringrazio Franco Tropeano per gli spunti che reciprocamente ci diamo per la passione di confrontarci su una pagina della Storia Italiana vista da due idealità differenti ma, per quanto mi riguarda, non totalmente e irreversibilmente contrapposte e da due anime con facoltà intellettive e culturali che, credo, possono interagire.