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Mi chiamo Letizia, così sono registrada all’anagrafe, però per parenti e amici sono Antonietta. Così si chiamava la sorella di mia madre morta pochi giorni prima che io nascessi, e mia madre in onore alla scomparsa mi volle dare il suo nome. Però mio padre, incallito ottimista e incurabilmente dissacrante, decretò per me me il nome Letizia. Io scoprii così, andando in prima elementare, che a scuola sono Letizia e a casa Antonietta. La cosa non mi turbò affatto in quanto ho avuto da sempre una grande facilità di adattamento a tutti i cambiamenti che mi piombavano addosso, essendo l’ottava di nove figli: otto fratelli tutti meravigliosi, pur sempre nella loro enorme diversità. 

Comincia con questo divertente aneddoto, un piccolo libro intitolato ‘La mela non è solo un frutto‘ scritto e autoprodotto per familiari e amici da Letizia Antonietta Ieranò, una cinquefrondese che da moltissimi anni vive a Milano ma ha conservato molti familiari e tanti ricordi affettuosi nel e del suo paese natale.

Avevo chiesto alla signora Letizia Antonietta un articolo con i suoi lontani ricordi di scuola, da pubblicare per l’inizio dell’anno scolastico. Invece, oltre le cose scolastiche, ho scoperto una piccola miniera di memorie e di umanità, nero su bianco, in un libro non destinato al commercio ma di sicuro interesse, perchè ci racconta con tanti dettagli non solo le vicende di una bambinetta di 80 anni fa a Cinquefrondi ma anche piccole storie e informazioni sulla sua numerosa ed estroversa famiglia e sul nostro paese, che spesso nemmeno i più anziani ricordano.

Ai tempi in cui Letizia Antonietta era piccolina, era diffuso l’impiego di cavalli e somari come mezzo di trasporto, e quindi la presenza a Cinquefrondi di artigiani ormai inesistenti come ad esempio il maniscalco. Ce n’era uno proprio di fronte alla scuola elementare e i bambini si appassionavano a vederlo ferrare i cavalli. Bambini peraltro che tutte le mattine andavano a scuola a piedi, da soli, e da soli tornavano a casa, altri tempi ! E poi la presenza delle guardie forestali che giravano armate nel paese, il treno a vapore che entrava in stazione due volte al giorno. E molto altro ancora che avrete modo di leggere attraverso il filtro dei ricordi di questa gentile signora che ha mantenuto inalterato nel tempo il suo amore per Cinquefrondi e la sua gente.

Il primo giorno di asilo – Ero all’asilo, avevo quindi sui quattro anni nel 1940-41. Indossavo un vestito azzurro di velluto con le scarpine di vernice nera, con un laccetto sul dorso del piede, fermato da un bottoncino. Mi piacevo vestita così. Mi rivedo sulla panchetta lunga quanto la parete dell’androne e tutti noi bambini seduti l’uno accanto all’altro.

Il primo fidanzatino e i suoi regali – Vicino a me c’era spesso Ninì De Pasquale un bimbetto molto bello, moro ma non troppo, con grandi occhioni scuri e con dei riccioli sempre puliti e ordinati. Ninì mi parlava e mi regalava tutto ciò che trovava per terra e fosse luccicante che a lui sembrava bello e anche a me sembrava bello.

Il maniscalco davanti alla scuola – Di queste cose luccicanti ce n’erano parecchie vicino al cancello dell’asilo perchè proprio di fronte c’era un maniscalco che, venendo fuori di tanto in tanto dal suo scantinato misterioso e buio, svolgeva il suo lavoro sulla strada, e noi prima di tornare a casa, perchè allora a Cinquefrondi anche i bambini così piccoli tornavano a casa da soli, ci fermavamo ad osservarlo mentre ferrava i cavalli. Quando però non aveva da sistemare gli zoccoli dei cavalli rattoppava le pentole bucate delle massaie e i pezzi di metallo cadevano a terra e brillavano alla luce del sole, allora Ninì li racattava e me li regalava con gioia e io con altrettanta gioia li accettavo e li portavo a casa. A casa mia madre mi aveva trovato una vecchia borsa della spesa dove potevo mettere al riparo questi miei preziosi regali.

Da bambina, Letizia abitava con la sua numerosa famiglia in una casa in Via Roma, ora cadente e abbandonata, sul lato del bar dello Sport di Agostino Pronestì, in pratica di fronte alla storica farmacia della famiglia Manferoce. Il papà si chiamava Luigi, la mamma era una polistenese, registrata come Maria Itria, ma in realtà tutti la chiamavano Angela.

Luigi fu un uomo eclettico, e in vita sua ha fatto di tutto: possedeva alcuni poderi e una casetta di campagna, in famiglia chiamata pomposamente villa, “in realtà erano tre sole stanzette, ma per noi era una reggia“. L’uomo ebbe una macelleria, “ma -racconta Letizia Antonietta-  dovette chiuderla perche nel periodo del fascismo non espose la foto di Mussolini come gli era stato richiesto, e anzi rischiò di finire pure al confino. Ha avuto anche un frantoio, cioè una macchina olearia per la produzione dell’olio. Poi aprì una sala cinematografica che però non ebbe molta fortuna. Era anche curatore dei terreni delle signorine Manferoce, inoltre curava, aiutato da alcuni braccianti, le sue due proprietà ed era anche uno stimatore agricolo molto apprezzato”.

A casa erano 9 figli: Agostino, Angelo, Turi. Ciccio, Concettina, Elena, Gisella, Antonietta, Pupa. Il primogenito Agostino portava il nome del nonno paterno che era stato un grande personaggio del mondo contadino cinquefrondese, morto nel 1928 e a cui il poeta Pasquale Creazzo dedicò uno sfolgorante elogio funebre (ne parleremo in un’altra occasione).  Agostino studiò medicina, specializzandosi in urologia, si trasferì a Milano e divenne anche viceprimario all’Ospedale San Paolo. Agostino era il padre di Giorgio Ieranò, lo scrittore, professore e giornalista di grande successo di cui questo sito ha già riferito in passato (leggi qua https://www.cinquefrondineltempo.it/lincredibile-storia-dello-scrittore-di-origini-cinquefrondesi-i-cui-libri-fanno-impazzire-gli-italiani/ ).
A Milano si trasferirono anche Angelo e Turi . Uno lavorava alle dipendenze di un curatore fallimentare e l’altro gestiva un suo grande negozio di scarpe. Il quarto fratello, Ciccio, meno fortunato di tutti, per un cromosoma in più era rimasto eterno bambino. Della bella e numerosa famiglia di Letizia Antonietta facevano parte anche 4 sorelle.  L’ultima di loro all’anagrafe si chiama Maria Luciana, ma per tutti divenne Pupa proprio a causa di Letizia Antonietta. Quando la bimba nacque infatti, come sempre accade ci fu festa in casa. Racconta l’autrice: mi avvicinai, la vidi e mi sembrò veramente bella, e dissi ‘ma è una pupa’ cioè una bambola. Da quel momento, e ancora oggi, Maria Luciana divenne per tutti e per sempre Pupa.

Una girandola di nomi – Nella famiglia Ieranò c’era tanta allegria, e i due genitori si sbizzarrirono anche sui nomi dei figli, d’altronde anche mamma Angela in realtà si chiamava Maria Itria. Quasi tutti i ragazzi  avevano in pratica due nomi, il primo era quello ufficiale che il padre aveva dichiarato al municipio e che appariva sui documenti, il secondo era quello usato a casa. Così Letizia in realtà veniva chiamata Antonietta; Maria Luciana divenne Pupa; Angelo fu registrato come Cesare; Turi era in realtà Salvatore; Concettina venne registrata come Veglia; Gisella al Comune si chiava Elsa; Ciccio era il diminutivo di Francesco. Gli unici due chiamati con il loro vero nome erano Agostino e Elena.

Di tutta la famiglia sono rimasti in vita il 97enne Turi, e poi Gisella, Antonietta e Pupa. Quest’ultima, sposata con il prof. Auddino di Polistena, che fu un insigne latinista, è anche la mamma del prof. Fabio Auddino, che nella scorsa legislatura è stato senatore con il movimento 5stelle. Gisella, vedova di Silvio Carlino,  invece è la mamma di Michele Carlino giornalista del Tg3, di Caudia dirigente nazionale della Cgil e di Lucia,  che è stata vicesindaco di Cinquefrondi ed è un noto avvocato. Elena ha invece avuto quattro figli, Francesco, Luigi, Angela che fa la farmacista e Teresa cantante in un gruppo blues.

A dx Turi Ieranò (97 anni) e moglie, ques’ultima è stata madrina della figlia di Francesco Mordocco (al centro nella foto)

Nella vicenda della famiglia Ieranò c’è anche spazio per un ricordo personale dell’autore di questo articolo: Filippo Gerace, mio padre, fu infatti grande amico di Silvio Carlino e di Michele Manno, marito di Concettina Ieranò (i due vissero a lungo anche in America), e anche di Agostino Ieranò finchè questi non se ne andò a Milano. Il mondo è davvero piccolo.

Nel libro, redatto in forma di diario, Letizia Antonietta parla di sè naturalmente, e della sua avventurosa vita milanese, ma soprattutto racconta dal di dentro la vita di una tranquilla famiglia del sud, la sua appunto. Ne viene fuori un meraviglioso affresco sulla Cinquefrondi d’altri tempi, che l’autrice mette in pagina spesso con abbondanti dosi di umorismo e allegria.

La prima delusione sul lavoro – “Di tutte le sorelle -racconta oggi Letizia Antonietta, che a Milano ha messo su famiglia, ed ha avuto due figli- solo io sono emigrata a Milano per motivi di studio e mi sono diplomata in ragioneria. Dopo ll diploma per insistenza dei miei genitori accettai la proposta di lavorare nel Comune di Cinquefrondi come provvisoria addetta all’Ufficio Elettorale, e sono stata la prima donna a lavorare in un contesto tutto al maschile. Mi sono trovata benissimo ma purtroppo non fui confermata per mancanza dei requisiti richiesti dal regolamento, indetto per titoli: non ero orfana, né povera e nemmeno categoria protetta. Quindi due giorni dopo ritornai a Milano con grande dolore della mia dolce mamma”.

Letizia Antonietta Ieranò accompagnata dal padre il giorno del matrimonio

La maestra classista – L’infanzia di Letizia Antonietta fu felice e allegra, ma non mancarono le ombre anche a scuola. In particolare, la bambina ci rimase malissimo quando scoprì il significato delle ripetute battute fuoriluogo che sentiva fare da una maestra: “quella insegnante fu secondo me, decisamente diseducativa e qui voglio dire una delle sue battute disgustose: portando a scuola la sua bimba la incitava: “Dì a questo ‘volgo’ tu di chi sei figlia” e lei come un brutto automa ripeteva : ‘Di signori’. Io allora non sapevo il significato di volgo e lo chiesi a mia madre la quale mi disse di non darci alcun peso”.

Quando rischiò di finire sotto un treno –  Ma come si divertivano i bambini a quel tempo ? la signora Letizia Antonietta nel suo piccolo volume dà libero sfogo ai ricordi, eccone alcuni: fin da piccola, da  mia madre e dalle persone che mi conoscevano, ero considerata giudiziosa e molto responsabile. Pero’ io personalmente avevo un concetto diverso del  mio comportamento  in quanto spesso  mi cacciavo in situazioni molto pericolose per una bimba piccola quale ero. Molte volte andavo a giocare da una mia cuginetta che abitava al di la’ della ferrovia, per cui mia madre mi dava sempre il pemesso di farlo, a patto pero’ che prendessi la strada sotto il  ponte  in modo da evitare assolutamente di attraversare i binari del treno. Ma un giorno presa dalla voglia  di destreggiarmi  a  camminare tenendomi in equilibrio sulle rotaie, come fosse la trave della  palestra, salii  sopra il ponte  e incominciai ad esercitarmi prendendoci proprio tanto gusto. Sapevo si’ che era pericoloso  ma mi azzardai ugualmente stando pero’ molto attenta all’arrivo del treno.

Ad un tratto sento lo sbuffare della locomotiva a vapore  e quindi velocemente cerco di  mettermi al riparo. ma poiche’  lo spazio  tra le rotaie e il sentiero  era proprio  minimo,  decisi di tentare di  attraversare il ponte,  ma non facendo in tempo ad arrivare dall’altra sponda, dove lo spazio era piu’  ampio,  e  poiche’  il treno ormai  mi aveva quasi raggiuta, saggiamente  decisi di fermarmi aggrappandomi , con tutte le mie forze,  all’inferriata . Il treno sopraggiungendo  mi  causo’ un tale spostamento d’aria che il mio vestitino, tutto ricci e merletti , si  gonfio’  espandendosi  quasi sfiorando la locomotiva. Sentii le gambe tremare  dallo spavento.  ma mi ripresi subito promettendo pero’ a me stessa di non avvicinarmi  mai piu’ alla ferrovia. Certamente tenni sola per me questa brutta esperienza   non solo per non perdere la fiducia    che mia madre  riponeva  in me ma  principalmente  per non caricarla di una  preoccupazione in piu’.            

Un gioco molto pericoloso – Un’altra mia scorrettezza la feci un giorno uscendo dall’asilo, quando una mia amica  di qualche anno piu’ vecchia  di me  mi incito’  a salire sulle inferriate del cancello della vicina  scuola elementare,  per farmi dondolare. io,  senza pensarci, subito  salgo, ma lei spinse  il cancello con tutta la sua  forza  che    arrivando   al cardine rimbalza  e   un’inferriata mi centra la fronte creandomi un taglio, con fuorouscita di sangue che mi sporca anche  il  cappottino. Sapendo di aver fatto una cosa molto scorretta e che mia madre  non avrebbe  assolutamente  tollerato, non solo non  sentii  per nulla alcun dolore  ma neanche  mi preoccupai della ferita che mi ero procurata, mi apprestai  invece a pulirmi del sangue che mi sentivo in viso prendendo da terra un pugnio di neve appena caduta e me lo lavai . Subito, senza che io sapessi perche’, il sangue cesso’ di uscire e cosi’ mi avviai a casa  e dissi a mia madre che ero scivolata sulla neve sbattento la fronte sul gradino. mia madre  con  voluta noncuranza mi disinfetta la ferita e anche quest’ultima  mia bravata fu ignorata e ne uscii ancora una volta indenne.

La paura di essere arrestata – Un’altra mia  marachella  accadde quando al  tempo della scuola media con il solito gruppo dei miei amici con i quali tutti i giorni  facevamo il tragitto per tornare a casa, decidemmo  di prendere la scorciatoia  interna  costeggiata da giganteschi alberi di ulivi e poiche’ era il periodo che l’olivo maturo cadeva a terra  formando sul terreno un’enorme distesa di questo delizioso frutto, una di noi  a questa vista ebbe la brillante idea  di metterci in  gara   per chi riusciva  ad adocchiare il frutto piu’ grosso. Passo dopo passo inavvertitamente ci addentrammo  nell’interno del campo. Mentre  gioiosamente  commentavamo  fra di noi  chi era stata piu’ fortunata  ad aver  trovato quello  vincente, vediamo venire verso di noi  minaccioso , almeno cosi’ ci apparve ai nostri occhi, la guardia forestale con tanto di fucile in spalla,  e qui con sussiego ci ordina di uscire dal campo perche’ e’ vietato entrare in quanto proprieta’ privata e per cui  tanto meno si potevano  raccoglierne  i frutti. poi, probabilmente, per non farci piu’ ripetere l’esperimento, prese i nostri nomi.  Io a questo punto, abitando accanto all’ufficio del capo delle guardie forestali e di cui inoltre sua figlia era una mia carissima amica, ebbi veramente un tuffo al cuore pensando  alla figura che avrei fatto  qualora lei ne fosse venuta a conoscenza  considerandomi, secondo me, addirittura  una ladra. Tornando a casa mi guardai bene  di parlare dell’accaduto a mia madre,  per cui, per molto tempo, tenendo solo per me la paura di essere arrestata, correvo a nascondermi  ogni qual volta vedevo una guardia.

(continua)

 

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