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Seconda parte della storia di Letizia Antonietta Ieranò, la nostra concittadina che, senza rendersene conto, all’inizio degli anni Novanta inventò il telemarketing ed ebbe il privilegio di lavorare con un mostro sacro del giornalismo come Enzo Biagi, ma pure è sempre rimasta una persona semplice e uile, e legatissima al suo paese di origine.

Nel suo piccolo libro intitolato ‘La mela non è solo un frutto’, una sorta di diario personale lungo oltre 85 anni, i riferimenti diretti e indiretti a Cinquefrondi sono continui. Letizia Antonietta parla di sé, dei suoi studi, del suo lavoro e della sua famiglia, ed ecco che spuntano qua e là, come segnati con l’evidenziatore, tanti pensieri e rimandi al suo tempo cinquefrondese.

Leggendo il libro ho provato una piccola grande invidia nei confronti di Letizia Antonietta: da ragazzo e anche da adulto e professionista ho letto e amato i libri e il lavoro di Enzo Biagi. Possiedo tutti i suoi scritti e, nel mio piccolo, ho sempre cercato di carpire qualcuno dei segreti del mestiere di quel grande giornalista. Ma non l’ho mai conosciuto di persona né incontrato. Poi leggo il racconto di questa gentile signora mia compaesana e scopro che lei con quel mostro sacro dell’informazione ci ha lavorato per un bel po’. Accadde all’epoca in cui entrambi erano dipendenti della Montedison, lei era in forza all’ufficio pubblicità e servizi annessi, e lui dirigeva tutta la baracca dell’informazione di quella grande azienda.

Iniziai a lavorare il primo aprile del ‘60 ed ero così soddisfatta che appena imboccata l’entrata dell’imponente palazzo Donegani mi dissi con vero orgoglio: “è qui che volevo approdare, ora sì che sono veramente nata e posso serenamente pianificare il mio futuro”. Il reparto ‘Fiere nel mondo’, di cui facevo parte, si occupava di realizzare gli stands quindi si avvaleva, per la realizzazione dei progetti, dei più accreditati architetti di Milano, ed in queste occasioni  conobbi i più famosi come Bob Noorda, che tra l’altro progettò la prima metropolitana di Milano, i fratelli Castiglioni e molti altri altrettanto bravi anche se meno famosi. Però la cosa che mi riempie più di orgoglio è avere avuto come capo servizio Enzo Biagi.

La vita lavorativa di Antonietta è stata negi anni abbastanza movimentata: diciamo che lei avrebbe desiderato restare a vivere a Cinquefrondi, e ci provò pure, cogliendo al volo un contratto a termine negli uffici comunali. Poi però le cose non andarono per il verso giusto, cioè al momento del concorso per l’assegnazione del posto furono fatte delle regole che escludevano di fatto Antonietta. Lei sospetta ancora oggi di un dispetto dei comunisti che governavano il Comune a suo padre che era un militante socialista. Chissà. L’impiego in ogni caso sfumò e alla ragazza, fresca di diploma e piena di belle speranze, non restò che tornarsene a Milano.

Dopo il diploma i miei genitori ce l’hanno messa tutta per farmi tornare al mio paesello. Mi trovarono quindi un lavoro all’ufficio comunale e io accettai volentieri e dopo una settimana mi ritrovai felicemente a casa dei miei. Dopo qualche mese fui assunta temporaneamente, in attesa che la giunta comunale decidesse come indire il concorso per l’assunzione definitiva. Scaduto il mio contratto a termine, la modalità del concorso avvenne per titoli e naturalmente dopo un anno di lavoro passato meravigliosamente con colleghi gentili, cordiali e tutti quanti rispettosi e disponibili, dovetti smettere di lavorare. Quell’incarico non mi toccava per mancanza dei requisiti validi chiesti dal regolamento: non ero orfana e neanche rientravo nella categoria protetta.  La cosa mi dispiacque molto ma me ne feci una ragione in quanto fu giusto così. Il posto quindi venne assegnato a un ragazzo meno fortunato di me affetto da polio.

Ma la cosa che mi dispiacque maggiormente fu l’aver  perso un lavoro che non solo mi era soddisfacente   ma che mi ha fatto vivere serenamente anche con tutti i colleghi tra cui il segretario Monea, il signor  Galimi  del  servizio anagrafe e il capoguardia Montalto del servizio elettorale,  al quale io ero assegnata.  L’anno trascorso lavorando in Comune mi è servito molto per farmi capire principalmente come è bello lavorare in un ambiente circondato da veri amici.  Da tener presente però che certamente avevo la strada spianata poichè mio padre era consigliere comunale, rispettoso e principalmente rispettato da tutti.

 La Mela non è solo un frutto – Il titolo insolito che Antonietta Ieranò ha dato al suo libro non è stato scelto a caso. L’autrice infatti ha voluto ricordare simbolicamente una presenza importante, anzi fondamentale, nella sua vita di bambina, quella di diverse persone di nome Mela, diminutivo di Carmela, che in vario modo aiutarono a lungo la molto numerosa famiglia Ieranò.

Fin da bambina, cioè da quando la mia mente ha potuto memorizzare e riportarmi i ricordi nel futuro, la mia vita è stata circondata da “Mele”, così si chiamavano la maggior parte delle donne che aiutavano mia madre a condurre l’amministrazione della mia famiglia molto numerosa.

 La prima Mela che io ricordi era piccola e mora con gli occhi brillanti, lei era la mia tata come si dice al nord invece al sud e precisamente in Calabria negli anni quaranta lei era solo la nostra, cara e fidata Mela. Lei mi dava da mangiare, mi vestiva e quando doveva fare le commissioni fuori casa o doveva andare al fiume a lavare i panni io ero veramente felice quando, alle mie ripetute insistenze, acconsentiva di portarmi con sè.

Quando Mela mi salvò la vita – Un brutto giorno, mentre lei stava stendendo le grandi lenzuola sui sassi bianchissimi a ridosso del torrente, improvvisamente ho udito, anzi fu lei che udì per prima, un grande fragore e senza che mi rendessi conto la vidi venirmi incontro e con enorme slancio prendermi in braccio e mettermi sull’argine più alto del fiume ordinandomi di non muovermi per nessun motivo.

 Io ubbidii capendo solo che doveva essere veramente molto importante e rimasi immobile però molto attenta a capire cosa stesse succedendo per aver così cambiato improvvisamente l’atteggiamento di mela in una situazione che di solito era di vera tranquillità e rilassatezza. Mela, con grande affanno, raccolse i panni, li mise molto disordinatamente nella cesta e arrivando trafelata verso di me, mi trascinò per mano sulla stradina che portava al ponte.

 Intanto, volgendo lo sguardo verso il canale lo vidi riempirsi di un tumulto di acqua, di solito trasparente e cristallina, terribilmente scura e sporchissima trasportando rovinosamente mobili, alberi ed animali: il torrente Sciarapotamo era esondato.

Mela della valigia, le botte prese dal marito e quel grande segreto – L’altra Mela era pure lei mora ma con le spalle sempre raccolte come tutte le persone timide.  Io ero troppo piccola per capire i suoi drammi. Però osservandola, potevo solo intuire che era pervasa da una grande tristezza. per distinguerla dalle altre “Mele” veniva soprannominata “Mela della valigia” ma io allora non capivo il perchè. Anni più tardi mi è stato svelato il motivo di questo soprannome.

 Lei lavorava da noi tutto il giorno e alla sera tornava a casa sua dove l’aspettava il marito, che evidentemente era etilista e quando spesso abusava dell’alcol, prima di addormentarsi la bastonava. allora lei, invece di ribellarsi, scappare o denunciarlo ha pensato di nascondersi sotto il letto e mettere sotto le coperte una vecchia valigia in modo che lui pensasse ci fosse lei. Facendo così, il marito era soddisfatto di avere avuto la possibilità di sfogarsi e Mela si sentiva vittoriosa per essersi risparmiata le botte.  Questa situazione per tutti noi era considerata inconcepibile però avevamo avuto ordine da mia madre di non azzardarci a commentare l’accaduto e tantomeno a dare consigli, altrimenti avremmo arrecato ulteriori danni.

In fuga dalla guerra e l’amico militare tedesco poi ucciso – Nei ricordi di bambinetta che non si possono cancellare ci sono anche gli anni della guerra, della paura, dei bombardamenti, delle privazioni. Nel 1943 la famiglia Ieranò decise di lasciare la vecchia casa di via Roma, ubicata di fronte alla farmacia Manferoce, e trasferirsi in campagna, ritenuta un luogo più sicuro. Era solo un casolare di tre stanze e servizi, con un grande spazio all’aperto, circondata soprattutto da alberi di ulivo, nella campagna fra Cinquefrondi e Melicucco. Ma per Antonietta era una ‘splendida tenuta’.

Io avevo poco più di cinque anni e, data la mia tenera età,  pur non essendo  in condizioni di capire le problematiche politiche e militari  di quel periodo, ero pur sempre  parecchio  frastornata poichè percepivo,  dai discorsi degli adulti e dal gran trambusto che regnava intorno, un clima di enorme paura, ma nello stesso tempo ero molto interessata e affascinata dalla nuova vita campagnola piena di stimoli molto piacevoli per me; quindi  accettai, senza mezzi termini,  la nuova sistemazione che poi mi piacque veramente tanto.

 Avevo un cagnetto bianco piccolo e giocherellone che adoravo farmi rincorrere per tutta l’aia. Un gatto abbastanza affettuoso ma spesso raggomitolato nel suo angolino a sonnecchiare.  Ma la cosa più piacevole era la piccola capretta che adoravo cibare, cioè io spiccavo le cime tenere e prive di spine della siepe, ai margini del campo, e la imboccavo mentre lei scodinzolando e belando sommessamente reclamava altri imbocchi.

 Ero inoltre libera di vagare in tutta la tenuta inondata di farfalle meravigliosamente variopinte, di fiori coloratissimi di tutte le specie e dimensioni che le api assaltavano avidamente per succhiarne il nettare. E io quindi ho deciso di imitarle: spiccavo i fiori e ne succhiavo anch’io il loro liquido deliziosamente dolce. Ma quello che mi piaceva di più fare era raccogliere le more dalla siepe che delimitava il mio terreno dalla strada. Queste more le spingevo con lo stantuffo in una grossa canna e poi ne bevevo il succo.

L’esperienza più toccante è stata aver conosciuto un militare tedesco dell’accampamento al di là della strada che spesso veniva a parlare con me, mentre io, dall’interno della mia siepe, raccoglievo le more. Mi diceva che lui aveva una bimba piccola come me. E poi anche lui si metteva a raccogliere le more dall’altra parte della siepe.

 Mia madre mi disse che certamente sentiva nostalgia della sua bimba. Lui parlava tedesco ma io lo capivo lo stesso. Pensando alla infelicità di questo soldato allora sì che mi rendevo conto quanto fosse triste la guerra.

 La cosa più sorprendente per me è stata constatare l’intelligenza eccezionale dei miei genitori nel trasmettermi con le parole e con i fatti l’assurdità della guerra dove non ci sono nè alleati e tantomeno nemici, ma solamente miseri uomini vittime del crudele destino deciso da pochi scellerati. Però ai miei occhi e nella mia mente il caos totale avvenne all’arrivo degli alleati americani, e nel nostro completo smarrimento, tutto divenne paurosamente tragico.

 Un esempio di questo particolarissimo periodo dopo l’armistizio dove tutto venne sconvolto: i nemici sono diventati amici e quasi quasi gli alleati di prima, secondo me, sono diventati dei prepotenti invasori che a loro favore va solo il fatto che ci hanno liberati, con il loro ddt, da pidocchi, pulci, cimice e scarafaggi. Questi liberatori però avevano, nei nostri confronti, un disgustoso atteggiamento di vero schifo. Questo lo intuivo da una frase ricorrente con la quale si rivolgevano a noi e che poi da grande, studiando la lingua inglese, ho capito  che, come avevo  intuito allora,  non era certo un saluto gentile e rispettoso.

 In questo clima di assoluta confusione qualche settimana dopo sento una voce flebile e disperata provenire dal cancello che implorava: “zia aiutami”.  Io rimasi immobile non riconoscendo mio cugino, Turi Auddino, magro, stanco e sporco. Chiamai subito mia madre che accorse velocemente, trascinandolo sotto il pergolato; lo fece sedere e lo rifocillò dandogli tanta acqua e poi un bicchiere di latte e subito dopo si prodigò a preparare una bacinella con acqua calda e sale per dare sollievo ai piedi sanguinanti nelle scarpe consumate che di intero avevano solo i lacci. Ci raccontò poi che era partito da Napoli e a piedi era giunto a noi.  Per pranzo mia madre gli diede una grande insalatiera piena di brodo con pezzettoni di carne che lui divorò velocemente. Subito dopo mia madre insistette che facesse una bella dormita e cosi’ fu. Dopo molte ore arrivò mio padre che caricandolo sul calesse, lo portò velocemente a casa dei genitori.

 Qualche giorno dopo dovemmo lasciare improvvisamente la nostra residenza di campagna in quanto luogo militarmente strategico quindi molto pericoloso e devo dire che fu veramente una decisione molto ma molto saggia.  Infatti qualche settimana dopo, il campo tedesco vicino a noi venne bombardato e molti militari, tra cui quello da me conosciuto, persero la vita. Questo mi fu detto moltissimi anni dopo da mia sorella maggiore. All’epoca invece la mia famiglia ebbe la delicatezza di non farmi sapere della morte del mio “amico” militare, e di questo ne sono grata a tutti quanti perche’ sarebbe stata una notizia troppo traumatica per una bimba della mia età. Approdammo quindi tutti noi nella casa di campagna dei miei zii, la zia era sorella di mio padre e lo zio fratello di mia madre. Quindi eravamo più che primi cugini, accolti con grande amore. E qui ho potuto constatare che proprio nelle grandi tragedie affiorano i sentimenti più nobili.

Le recite scolastiche si tenevano nel cinema di mio papà – La cosa che mi affascinava di più alle elementari erano i saggi di recitazione che le insegnanti preparavano magistralmente ogni fine d’anno. A me piaceva molto partecipare e per fortuna venivo sempre scelta, non credo perchè pensassero fossi tagliata per la recitazione ma principalmente perchè mio padre, essendo proprietario dell’unico cine teatro del paese , concedeva l’uso gratis del locale per le rappresentazioni  scolastiche.

La prima volta, dopo aver cantato e ballato in gruppo per l’intero spettacolo, a me fu assegnato, come epilogo un bellissimo monologo dove io entravo in scena da smemorata e qui non solo fingevo di aver dimenticato la parte ma addirittura neanche mi rendevo conto dove mi trovavo e cosa dovevo fare.

Quel giorno che persi la memoria – Evidentemente alcuni spettatori, forse prevenuti nei miei confronti, o forse perchè io, compenetrata nella parte,  la resi così verosimile, si alzarono dicendo: “che figura ! ha dimenticato tutto.  E’ una vera scordona”. Io non ci feci caso e continuai a recitare completando tutta la farsa. Finalmente, quando tutti intuirono che avevo recitato, interpretando mirabilmente la parte della smemorata, mi applaudirono a lungo e a questo punto la maestra mi chiese di ritornare in scena per ringraziarli.

Dopo la nascita dei due figli, Letizia Antonietta è costretta a cambiare vita, non può più sobbarcarsi gli impegni e il lungo orario di lavoro in Montedison, quindi lascia l’impiego per dedicarsi alla famiglia. Ma dieci anni dopo, quando i piccoli non sono più troppo piccoli, decide di riprendere a lavorare magari part-time.

Letizia Antonietta vende enciclopedie e libri – Presi il settimanale “Grazia” e lessi un’offerta di lavoro della casa editrice Garzanti. Fissai l’appuntamento sperando mi proponessero un lavoro di segreteria invece mi venne offerto di vendere le loro grandi opere. Molto perplessa accettai, con riserva però, convinta che certamente non sarebbe stato un lavoro adatto a me. Promisi quindi che prima ci avrei provato.

 Partii per le vacanze con tutti i depliant e per dimostrare, più che altro a me stessa come me la sarei cavata a descrivere quelle opere, che per la verità mi sono molto piaciute, mi cimentai per primo con mia sorella che ero certa che almeno avrebbe avuto piacere di ascoltarmi. Mi sono messa a sciorinare tutto ciò che avevo letto e quello che con entusiasmo avevo metabolizzato. Frattanto mentre parlavo mi ascoltavo e a volte mi assolvevo e molte volte mi bocciavo.  Alla fine del discorso mia sorella mi dice testualmente: “ sono opere così interessanti che decido di prenderle al volo”.

 Allora con mio grande stupore ho capito che questo lavoro avrebbe potuto anche funzionare. Al ritorno dalle vacanze accettai l’offerta. Mi hanno quindi proposto di accompagnare le classi a visitare lo stabilimento Garzanti e poi contattare le famiglie degli alunni per proporre queste opere. Giorno dopo giorno affinando il mio linguaggio e la presentazione, è stato sempre più facile vendere.  I genitori che incontravo erano sempre cordiali e disponibili a tal punto che dopo aver prenotato l’opera , di loro iniziativa, mi davano i nominativi dei loro amici o parenti che io poi contattavo. Questo mi ripagava certamente di tutte le fatiche. Ho avuto la possibilità con questo lavoro di conoscere personalità di diverse estrazioni sociali e cultura.

 La cosa è stata veramente stimolante facendomi plasmare la presentazione al grado di preparazione culturale del “malcapitato” di turno. Nella stessa giornata potevo incontrare sia il professore universitario come la madre analfabeta che quando solo accennavo all’opera in ordine alfabetico mi chiedeva cosa significasse.

 Allora io pazientemente, con esempi elementarissimi davo la risposta soddisfacente per chi mi stava ascoltando ma principalmente per me che ero riuscita a chiarire il concetto. E allora mi dicevo “Lety sei brava”.

 

La signora Ieranò inventa il telemarketing – Ho lavorato per garzanti per ben dieci anni. Ho abbandonato questo lavoro quando la visita allo stabilimento avveniva con alunni di scuole dell’interland di Milano e di conseguenza la presentazione delle opere dovevo farla a famiglie che abitavano fuori Milano. Ciò richiedeva molto tempo e con due bambini mi resi conto che non mi era possibile continuare a svolgere questo lavoro e allora decisi di lasciarlo.  

Sul Corriere della sera trovai un’inserzione di una casa vinicola veneta che mi propose di vendere vino: dovevo portare i campioni e farli assaggiare. Naturalmente la cosa mi sembrò assolutamente non fattibile per me. Ma poichè il titolare dell’azienda mi parve abbastanza malleabile io mi azzardai a proporre di vendere per telefono senza assaggio preventivo. Lui strabuzzò gli occhi e mi disse che sarebbe stato impossibile.  Allora feci io una controproposta dicendo di darmi la possibilità di provare anche per una sola settimana. Lui accettò e mi concesse la prova per un mese.

 Io però dopo aver accettato di vendere vino fui assalita da una forte angoscia perchè nella mia famiglia quasi tutti noi siamo, se non astemi, decisamente non dediti ad usare abitualmente questo  tipo di bevanda, e io personalmente tuttora penso sia pure nociva alla salute. Inoltre questo mio passaggio lavorativo, dal proporre alta cultura ad offrire bevande alcoliche, non mi sembrava esattamente un salto di qualità, quindi il cambiamento non fu per nulla indolore.  Però anche se di malavoglia, decisi di provare.

 Fin quando la telefonata, le prime volte, andava a vuoto, quasi ero contenta poichè potevo rimandare e affrontare in altra data il mio ‘problema’. Ma quando. dopo alcuni tentativi una signora gentilissima, ascoltando la descrizione della cassettina che le offrivo, mi disse: “bene mi ha convinta, me la mandi”, improvvisamente nella mia mente si addensarono tutti i miei dubbi con la netta convinzione che stessi vendendo qualcosa di non perfettamente innocuo. Senza rendermene assolutamente conto ebbi come un black out e tutti i miei pensieri si annebbiarono e per alcuni attimi non sentii quasi più la voce della signora che divenne lontana, impercettibile e confusa che non mi permise di capire l’indirizzo che mi stava dettando per la spedizione. Ma, facendomi forza per vincere questo inconscio rifiuto, mi feci ripetere per ben due volte l’indirizzo e anche se con mano quasi tremolante, tirando poi un sospiro di sollievo, finalmente feci il primo ordine. Superata l’empasse, continuai poi a farne tanti di ordini e per parecchi anni, ma sempre senza la pur minima forzatura.

Ho venduto vino fino all’età di 80 anni

L’esperimento, superate le mie remore, quindi, con mio grande stupore, andò benissimo e con il pieno consenso e approvazione del mio titolare. Fu così che, forse io, inventai il telemarketing. Correva l’anno 1992 e mi dedicai a questo lavoro per ben 26 anni e l’abbandonai alla veneranda età di ottanta anni.

 Superati i miei timori e le mie remore questo genere di impegno mi diede in seguito molte soddisfazioni in quanto le persone che usano il vino sono persone che per lo più amano mangiare bene, sono in buona salute e quindi felici di ricevere questo genere di proposte telefoniche, allora ancora inusuali, a tal punto che, molti alla conclusione dell’accordo, mi dicevano: “mi chiami ancora”.

 Ricordo che servivo anche un fiorista, che alla consegna del vino mi faceva recapitare, attraverso il nostro fattorino, un bouquet di meravigliosi fiori.  Il titolare di alcune aziende di cosmetici mi spedì in regalo un’intera gamma dei suoi prodotti, mentre un altro cliente mi dedicò una meravigliosa poesia.

Oggi Letizia Antonietta Ieranò si gode il meritato riposo, vive ancora a Milano, città che ama e nella quale si è sempre trovata bene. E sui social continua a deliziarci di ricordi e aneddoti sul bel tempo che fu, mischiando nostalgie e piccoli episodi di storia cittadina che molti di noi spesso non conoscono.

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