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C’è un uomo di Cinquefrondi che sembra aver fatto di tutto per farsi dimenticare dagli altri. Ha vissuto e realizzato cose importanti durante la sua esistenza, ma la sua storia è passata in gran silenzio, in buona parte sconosciuta perfino ai suoi stessi familiari.

Quell’uomo era un soldato e finì la sua carriera da Generale, ma lui generale lo fu sempre nello spirito e nella personalità, perfino nel portamento elegante e nel fisico, alto, robusto, forte.

Il suo nome era Salvatore Silipo, ma tutti lo chiamavano Ciccio. Un nomignolo forse troppo giocoso per uno serissimo e di poche parole, che vestì giovanissimo la divisa delle Forze Armate, andò in guerra, fu combattente valoroso e autore di un atto eroico che gli valse una Medaglia al valore. Subì con dignità i maltrattamenti nei campi di prigionia della Russa comunista, e concluse la sua storia militare addirittura da Generale di Corpo d’Armata, il grado più alto esistente nell’Esercito Italiano.

Ciccio Silipo visse a Cinquefrondi fino all’età di 15 anni, poi si trasferì a Reggio per il liceo, ospitato dalla sorella Carmela, lì residente e sposata con un maresciallo di Anoia in servizio al Distretto Militare.

Il gen. Salvatore Ciccio Silipo

Durante gli anni del liceo, il futuro generale e eroe di guerra tornava a casa per le vacanze estive e le feste comandate. Quello della prima giovinezza fu l’unico tempo nel quale il ragazzo fu sempre vicino alla sua famiglia, perchè dopo la maturità Ciccio Silipo prese il volo, indossò la divisa e lasciò per sempre Cinquefrondi. Vi tornava spesso in vacanza, soprattutto finchè c’è stata la mamma in vita. Poi un pò di meno, anche per i crescenti impegni di lavoro. Eppure restò sempre innamorato del suo paese, mantenne i contatti con gli amici di gioventù, e addirittura talvolta veniva apposta a Cinquefrondi per farsi confezionare su misura vestiti e cappotti dal maestro Peppino Belcastro.

La raccolta di informazioni sulla vita di Ciccio Silipo è stata difficilissima e lunga. Pochissimi sanno qualcosa di lui a Cinquefrondi. Assai scarne le notizie in possesso dei discendenti, soprattutto nipoti e pronipoti;  quasi del tutto inesistenti foto, documenti, memoriali, interviste, articoli di giornale e altro riferito alle mille peripezie di questo soldato dal carattere fortemente riservato e che rifuggiva ogni forma di vanità e pubblicità.

Poco di questo articolo si sarebbe potuto scrivere senza la collaborazione dell’ufficio Comfoter del Comando generale dell’Esercito, al quale dunque va uno speciale ringraziamento: in via eccezionale, infatti, e dopo una lunghissima attesa, mi è stato consentito di consultare il corposo fascicolo personale di Silipo dove in mille mila carte polverose e ingiallite, molte delle quali scritte a mano, è contenuta a brandelli l’intera storia militare e civile del nostro compaesano, comprese lettere, note riservate e disciplinari firmate dai superiori, documenti privati e sui suoi numerosi guai di salute, e perfino sulla situazione economica e il comportamento dentro e fuori dalla caserma.

Il fascicolo personale di Ciccio Silpo conservato nell’archivio storico dell’Esercito

Il Generale era la discrezione fatta persona, la moglie Lucia mi rivelò che il marito era stato a lungo inseguito dai giornalisti di un tg, che volevano a tutti i costi strappargli un’intervista sui suoi trascorsi nei campi di prigionia del compagno Stalin. Ma lui non volle mai saperne, anzi quando questi tornavano periodicamente alla carica, sperando di convincerlo ad andare in tv, nemmeno rispondeva più al telefono, delegando questo compito appunto alla moglie.

Silipo non ha mai parlato volentieri della sua terribile esperienza nei campi di concentramento della Russia comunista, la cui ferocia e stupidità non aveva nulla da invidiare a quelli di Hitler. In due di questi campi l’allora giovanissimo soldato cinquefrondese trascorse ben quattro anni della sua vita, da prigioniero, in condizioni disumane e subì ogni genere di angheria. Addirittura gli ultimi 15 mesi di questo quadriennio li trascorse quando la guerra era ormai finita ! Vedremo meglio più avanti.

Quei terribili giorni gli lasciarono segni indelebili nell’animo e gravi conseguenze fisiche, Silipo soffrì per tutta la vita di malanni dovuti alle ferite curate male, al freddo, alla fame e alle condizioni generali di prigionia che intaccarono la sua forte fibra da cui non riuscì mai dunque a guarire del tutto.

In quei tristissimi anni i suoi occhi videro cose che non si dimenticano: corpi di poveri soldati lasciati morire al freddo e accatastati come sacchi di patate, commilitoni giustiziati con un colpo alla testa perchè non ce la facevano più a camminare a piedi scalzi nella neve, altri lasciati morire nella sporcizia e con tonnellate di pidocchi addosso, privi di cure, tenuti al freddo. Per non dire del cibo, distribuito nemmeno tutti i giorni, in una quantità che avrebbe lasciato affamato persino un bimbetto: zuppe di erbe senza erba, brodo con bucce di patata, pezzetti di pane duro.

Il Sottotenente Ciccio Silipo

Al soldato cincrundiso non piaceva ricordare quella brutta esperienza, troppo dolore, il Male sembrava personificato in mezzo alle cose degli uomini; la malvagità si era impossessata di quelle anime con la divisa dell’Armata Rossa comunista che pretendeva di essere diversa e migliore delle SS hitleriane e invece, quanto a disumanità erano uguali a quelle, solo con un nome diverso.

Nonostante il suo proverbiale riserbo, però, Silipo qualcosa ogni tanto tirava fuori dalla cassaforte dei ricordi, ad esempio più volte raccontò di considerarsi doppiamente sopravvissuto, perchè non soltanto aveva superato tutte le prove fisiche terribili che migliaia di altri avevano pagato con la vita, ma anche perchè un giorno la sorte gli venne incontro quando dovette vedersela personalmente con uno degli aguzzini del campo. Questi gli intimò di cantare una canzone in italiano, deridendolo davanti a tutti. Ciccio non gradì, ma nemmeno voleva morire a 23 anni, così fece finta di stare al gioco. L’aguzzino disse che se la canzone fosse stata di suo gradimento gli avrebbe risparmiato la vita, sennò peggio per lui. Cose da pazzi. Cicciò non sapeva cantare e lo si capì subito, il tizio decise allora di sparare, puntò la pistola alla testa del soldato cinquefrondese e premette il grilletto. Ma la pistola s’inceppò.

Dopo quell’episodio Ciccio Silipo cominciò a coltivare una segreta passione per il canto e quando stava con i familiari o in altre occasioni di svago con gli amici esprimeva cantando la sua allegria e gioia di vivere, in ricordo di quel terribile episodio.

Ne aveva viste tante Silipo, dunque si comprende perchè non amava rievocare quei giorni e quei dettagli macabri, riaprendo ferite mai chiuse; lui era riservato in tutto e su tutto, da vero soldato. E infatti non disse mai nulla e non si vantò nemmeno di una vicenda che invece lo vide protagonista in positivo: un’azione eroica per la quale gli fu data prima la Croce di guerra al merito e poi addirittura la Medaglia d’argento al valor militare.

Nella storia cittadina solo a due cinquefrondesi è stata concessa questa altissima onorificenza: uno appunto fu Silipo, l’altro l’ex maestro elementare Antonio Bonini, che durante la prima guerra mondiale si distinse per una coraggiosa operazione sui monti friulani, ne abbiamo parlato qui https://www.cinquefrondineltempo.it/antonio-bonini-leroe-di-guerra-che-fece-catturare-400-prigionieri/  .

Ma vediamo di conoscere più da vicino il protagonista della nostra storia: Ciccio era il settimo dei dieci figli di Raffaele Silipo, famoso anche per essere il re dei frantoi e delle ruote da mulino. A Cinquefrondi e in tutti i paesi vicini, infatti, negli anni tra fine ‘800 e inizi del ‘900 Raffaele era un’autorità imprenditoriale, gran parte del mercato passava per le sue mani. Costruiva e vendeva frantoi, macchinari in legno e ferro, ruote, persiane, finestre, botti e altri strumenti. Curava anche la manutenzione di tanti complicati aggeggi molto usati a quel tempo nelle campagne. Ricordiamo che non c’era elettricità e bisognava sfruttare la forza degli animali e quella dei corsi d’acqua per muovere, ad esempio, le grandi ruote usate nei frantoi e nei mulini. Una di queste è ancora esistente e ben conservata proprio nella casa storica dei Silipo. L’imprenditore Raffaele fece fortuna con la sua ditta e i suoi se la passavano bene.

Raffaele e la moglie Maria Itria Corica, una polistenese di ben 19 anni più giovane, furono una coppia felice e molto prolifica. Dopo sposati andarono ad abitare in via Savoia, vicino alla chiesa del Rosario. Ma presto si trasferirono in una grande casa con un bel terreno, in contrada Burilla, sulla via che da Cinquefrondi porta ad Anoia. Lì videro la luce, con parti casalinghi, la maggior parte dei dieci figli della coppia: Carmela la primogenita nacque nel 1907, Giuseppe l’anno dopo, Domenico nel 1911, Rocco nel 1913, Caterina nel 1914 e morta giovanissima, Rosa Maria nel 1918. Il settimo figlio di casa Silipo fu Salvatore detto Ciccio, nato nel 1920, seguirono ancora Michele nel 1922, Angelo nel 1924 e infine Iole nel 1926.

Una bella e numerosa famiglia come non se ne vedono più, molto stimata e rispettata in paese. Superfluo sottolineare che tutti e dieci i fratelli Silipo sono da tempo passati a miglior vita.

Prima di andare avanti, qualche altra informazione su questa grande tribù e i suoi discendenti, alcuni dei quali assai noti a Cinquefrondi: Domenico Silipo era il papà di Peppino (già dipendente dell’ufficio tecnico comunale, il primo che mi ha raccontato qualcosa dello zio soldato) e del compianto Rafelino, anche lui ex impiegato al servizio anagrafe del Comune; Rocco era il papà del medico Raffaele Silipo, suo lo studio in viale Rimembranze; Rosa Maria era invece la mamma del prof. Lello Ierace che da tempo vive a Potenza (e che mi ha aiutato molto nella ricerca di informazioni) e del compianto prof. Pino Ierace, docente di matematica a Polistena, catechista storico della parrocchia, esperto conoscitore della lingua tedesca, traduttore giurato e interprete per il Tribunale e la Procura di Palmi, scomparso qualche anno fa. Angelo Silipo, il penultimo dei figli, fece il medico, e andò a vivere fuori Cinquefrondi, sua figlia Raffaella è giornalista del quotidiano La Stampa di Torino. Infine Iole era la mamma della conosciutissima maestra cinquefrondese Maria Teresa Mileto (nonchè moglie del prof. Mario Ceruso, storico presidente della Jolly pallavolo).

Peppino Silipo e una vecchia ruota di mulino ancora funzionante costruita dal nonno Raffaele

Il capostipite dei Silipo fu imprenditore accorto e anche uomo aperto e lungimirante, per quanto gli fu possibile spinse i figli sulla via dello studio. La primogenita Carmela finì a Reggio Calabria, dove si è dedicata all’insegnamento. Anche quattro figli maschi dopo le superiori fecero l’università: Rocco divenne professore di lettere al liceo classico di Cittanova, Michele fece l’ingegnere, Angelo come detto divenne medico. L’altro figlio maschio, il protagonista della nostra storia, cioè Salvatore detto Ciccio scelse l’Esercito. I primi due figli Domenico e Peppino invece presero in mano le redini dell’azienda di famiglia.

Torniamo a Ciccio: prima ancora di compiere 20 anni e fresco di maturità conseguita al liceo scientifico Bianchi di Reggio Calabria nel giugno 1940, il ragazzo presenta domanda per entrare all’Accademia Militare di Modena, e supera la prova di ammissione. L’Italia è già in guerra, schierata da Mussolini al fianco della Germania di Hitler, una decisione disastrosa come disastrose saranno le sue conseguenze, anche a carico del giovane soldato cinquefrondese. Il padre Raffaele non è entusiasta della scelta di Ciccio; arruolarsi mentre il Paese è in guerra evoca solo pericoli e suscita tanti timori e brutti pensieri in un genitore, ma lui non si oppone, e sostiene comunque la volontà del figlio.

Il 1° novembre 1940 Ciccio Silipo si trasferisce a Modena e comincia il Corso di addestramento e la Scuola Ufficiali. Il 27 marzo 1942 supera gli esami con la media di 13,69 punti su 20, classificandosi al 200mo posto su 527 allievi, ed entra quindi nell’Esercito Italiano con il grado di Sottotenente. Il suo primo settore di impegno è la fanteria, di cui frequenta la Scuola fino al 9 maggio 1942, giorno in cui presta il giuramento a Parma.

Terminati gli adempimenti formali e burocratici, per il 22enne Ufficiale di fanteria arriva finalmente il primo vero incarico sul campo, dovrà comandare un plotone formato da 40 soldati fucilieri del 79mo Reggimento a Verona. Ma prima lo aspetta, a Riva del Garda, un corso di addestramento sull’uso delle mitragliatrici anti carro.

E’ l’inizio dell’estate del 1942, ma Silipo non fa in tempo a finire il corso che subito si avvera ciò che papà Raffaele temeva di più: il reparto del giovanissimo figlio viene infatti destinato alle operazioni di guerra in Russia.

Bisogna partire e anche in fretta, al fronte c’è bisogno di forze fresche, la fanteria ha la precedenza su ogni altro reparto. Il Reggimento veronese di Silipo viene associato al 79mo Reggimento di fanteria ‘Roma’, e il 3 di agosto 1942 giunge dunque al fronte. Lì non si fanno esercitazioni e addestramenti, ma si spara, si uccide, si muore. E Ciccio Silipo si trova in prima linea.

Ma che ci fanno i soldati italiani in Russia nell’estate del 1942 ?  Mussolini già nel 1941 aveva avuto la sventurata idea di sostenere militarmente l’aggressione tedesca alla Russia di Stalin, mobilitando un Corpo di spedizione (Csir) formato da tre Divisioni, cioè 62.000 uomini, con l’aggiunta di 5.500 automezzi, 4.600 quadrupedi, 220 pezzi di artiglieria, aerei.

Nella sterminata terra russa queste quantità militari apparentemente enormi avevano in realtà un valore più che altro politico, perchè “non influivano sui rapporti di forza in campo, ma rappresentavano la volontà di Mussolini di difendere il suo ruolo di primo degli alleati (o dei vassalli) di Hitler in quella che si prospettava come una trionfale e decisiva vittoria”, come ha rilevato lo storico Giorgio Rochat.

Ma pochi mesi dopo il quadro cambia radicalmente, “l’offensiva tedesca aveva conseguito successi grossi, ma non decisivi e con forti perdite”, e la Germania dunque chiede all’Italia un aiuto vero, con forze molto più consistenti.

Così nell’estate del 1942 alle tre Divisioni iniziali se ne aggiunsero altre sei con ampio spiegamento di artiglieria e automezzi: nasce l’VIII Armata, conosciuta come ARMIR, (armata italiana in Russia) formata complessivamente da oltre 230.000 uomini, quasi 17.000 automezzi, un migliaio di trattori d’artiglieria, 5.000 moto, 25.000 quadrupedi, un migliaio di cannoni e una sessantina di aerei.

Silipo da buon soldato, dunque, nell’estate del 1942 prepara le sue cose e parte per la Russia con uno dei 55 treni speciali (venivano chiamati ‘tradotte’) utlizzati per trasferire le truppe. I soldati arrivavano in treno fino al confine con l’Ucraina nella zona di Kharkov, poi a piedi e in autocarro verso il fronte del Don, percorrendo grandi distanze, anche di 500 e mille km.

La disfatta degli italiani sul fronte del fiume Don – Le truppe di Hitler nel 1941 e 1942 vogliono conquistare la Russia e puntano su Stalingrado, vanno avanti da sole e lasciano le armate dei paesi alleati (Italia compresa) a difendere la linea geografica tracciata lungo il fiume Don. Ma i russi comprensibilmente non ci stanno a farsi invadere e si difendono con ogni mezzo, contando sulla superiorità numerica di soldati e armi, sulle dimensioni smisurate del loro territorio, sul fatto che i tedeschi li hanno sottovalutati militarmente e contano pure sul freddo polare a cui i soldati stranieri non sono affatto abituati.

Al momento della partenza per la Russia, per Silipo è tutto nuovo: il ragazzo non è mai stato all’estero, non ha mai combattuto prima, non ha mai comandato un plotone in battaglia, parla appena un pò d’inglese per averlo studiato in Accademia, troppo poco per operare a suo agio in un ambiente sconosciuto e tanto pericoloso, con soldati che conosce appena; ma lui non si perde d’animo e va per la sua strada, senza sapere che i suoi superiori peraltro lo tengono d’occhio.

Il 24 ottobre del 1942 il tenente Roberto Rocca comandante della compagnia cui è affidato Silipo firma una nota riservata sul suo sottoposto: “Ho alle mie dipendenze dal 17 agosto il Sottotenente Silipo. Ufficiale di ottima preparazione, disciplinato, colto. Ha superato bene le fatiche e i disagi di questi primi mesi al fronte russo. Forse per la sua giovane età non ha saputo catturarsi l’affetto della truppa sulla quale non ha eccessivo ascendente, anche per il suo estraniarsi dalla sua vita e dai suoi bisogni. In combattimento non ha finora dato particolari prove di coraggio e serenità”.

Pochi giorni dopo, cioè il 20 novembre, il comandante di battaglione, ten. Col. Mario Policastro registra la nota del capitano e aggiunge: “concordo. (…) quando Silipo avrà acquistato maggiore esperienza del servizio il suo rendimento sarà ottimo, per ora è solo buono”.

Mai giudizi furono così poco azzeccati. E’ proprio in questa fase dell’inverno 1942, infatti, che il giovane sottotenente cinquefrondese comincia a mettere in luce le sue qualità di combattente, generoso e temerario, benchè privo di qualsiasi esperienza. E sul campo di battaglia si fa valere, eccome, contrariamente alle frettolose parole del tenente Rocca.

Lungo il Don nel dicembre del 1942 si svolse una delle più cruente battaglie della seconda guerra mondiale, che vide soccombere le forze armate italiane. Migliaia di uomini erano stati mandati allo sbaraglio in un’impresa pazzesca: l’invasione della Russia. Ci aveva già provato Napoleone a suo tempo, ci riprovava ora Hitler, ma come è noto gli eserciti di entrambi ne uscirono a pezzi.

Ai primi del mese nella zona di Teresckovo si susseguono furiosi combattimenti fra soldati italiani e russi, è una guerra di posizione. La tensione è alle stelle, nei giorni fra il 14 e il 18 dicembre lo scontro tocca il suo apice, i combattimenti si fanno pesantissimi, con gravi perdite da entrambe le parti. Sono i giorni in cui i sovietici lanciano l’operazione ‘Piccolo Saturno’, l’assalto decisivo per respingere le truppe nemiche.

In questo frangente, che vide le forze italiane schiantate e respinte brutalmente, il 22enne Silipo si distingue in un’azione spericolata che gli valse un altissimo riconoscimento. Ecco che cosa accadde: “Comandante di un plotone di fucilieri di una compagnia di rincalzo, durante un aspro attacco nemico, il Sottotenente Silipo noncurante del micidiale fuoco di armi automatiche, si lanciava col proprio reparto alla riconquista di una importante posizione occupata da consistenti forze avversarie, dando prova di grande audacia e valore. Di esempio ai propri uomini, dopo una dura e sanguinosa lotta, condotta con lancio di bombe a mano e corpo a corpo, travolgeva l’avversario, costringendolo ad abbandonare la posizione. La sua tempestiva e decisa azione contribuiva validamente a risolvere la situazione assai critica. Confermava così le sue alte doti di audacia e di spirito combattivo, già dimostrate in precedenti sanguinosi combattimenti”.

La pergamena con la concessione della Medaglia d’argento al Valor Militare

Le parole in neretto sono quelle pubblicate ben 18 anni dopo, cioè nel 1960, dall’allora ministro della difesa Giulio Andreotti, nel decreto di concessione della Medaglia d’argento al valor militare.

Nella disfatta di quei giorni sanguinosi, l’azione di Silipo lasciò increduli i suoi stessi superiori. Il ten. col. Policastro successivamente firmò una nota di tutt’altro tono rispetto a quella precedente: Silipo “nonostante la giovanissima età e la recentissima nomina ad Ufficiale ha saputo in brevissimo tempo acquistare esperienza e praticità nel comando e nell’impiego del plotone in guerra. Nei vari duri e sanguinosi combattimenti svoltosi durante l’epica battaglia invernale del dicembre 1942 sul fronte russo è stato di esempio per coraggio, sprezzo del pericolo, perizia, alto senso del dovere e soprattutto per valore ed ardimento. Nel complesso è ufficiale di ottimo rendimento su cui si può fare affidamento in ogni circostanza”.

Il superiore che aveva dato un giudizio modesto sul giovane ufficiale aggiornò dunque la sua valutazione iniziale sul giovane cinquefrondese dopo l’atto di eroismo compiuto in combattimento, e propose egli stesso la concessione della Medaglia al valore !

Sul fronte del fiume Don le forze italiane sul campo di battaglia erano largamente inferiori a quelle avversarie, l’organizzazione dei reparti approssimativa, gli armamenti modesti, l’offensiva dei russi devastante, eppure quei soldati combatterono e tennero alto l’onore dell’esercito italiano, e Silipo fra gli altri scatenò tutte le sue risorse di combattente per mantenere fede al suo giuramento di soldato.

La motivazione della medaglia, con il suo linguaggio antico e militaresco, ci dice anzitutto del coraggio di quel giovane che, pur in una situazione di manifesta inferiorità sul campo, combatte a viso aperto in una battaglia con le armi da fuoco ma anche con gli scontri corpo a corpo, che lasciano sul terreno morti e feriti, e travolge gli avversari. Già nei giorni precedenti si era distinto in altre azioni simili. Il tutto in un contesto nel quale l’esercito italiano era finito letteralmente annientato dai russi.

Da soldato ragazzino che era, Silipo in pochi giorni diventò adulto sul campo, conobbe da vicino il sangue e la morte, vide perire i suoi compagni e andò all’assalto di giovani come lui che nemmeno conosceva. Scoprì l’orrore della guerra, e la ferocia, e pensava di aver già visto tutto il brutto dell’esistenza, ma non poteva sapere che altro orrore lo attendeva al varco nei giorni a venire.

I bollettini militari raccontano che dopo l’eroica operazione, nei giorni dal 14 al 18 dicembre, del Sottotenente Silipo si perdono le tracce e l’uomo viene dato per disperso, dicitura vaga e pietosa, riservata ai morti non ancora rinvenuti, ai feriti rimasti chissà dove, ai disertori e a quanti sono stati catturati dal nemico.

Quattro giorni dopo, cioè il 22 dicembre, un ufficiale del suo Comando annota che il giovane Sottotenente è stato ritrovato ferito nella zona di Medovo (nelle carte d’archivio il nome della località è scritto a mano e si legge male), colpito al braccio destro e al basso torace.

Il giovane Ufficiale non va nelle retrovie a curarsi ma resta sul campo a combattere, fasciato e incerottato, di sicuro abbastanza indebolito nel fisico, ma non nello spirito. Due giorni dopo, nel pomeriggio della vigilia di Natale, Silipo cade in un’imboscata dei soldati sovietici in una località chiamata Cerkov, e viene catturato. Insieme ad altri ufficiali la mattina seguente, giorno di Natale del 1942, è avviato a uno dei tanti campi di prigionia allestiti dalle forze armate della Russia comunista, denominato Oranki 74, distante ben 1024 km dal luogo della cattura.

I compagni di reparto però non sanno della cattura e Silipo dunque è  dato nuovamente per disperso. Ai familiari a Cinquefrondi non venne detto nulla sul momento, ma quelli capirono che qualcosa di brutto doveva essere accaduto perché non ebbero più notizie del loro ragazzo. La burocrazia militare quando non ha notizie precise su un soldato si limita a dire che è disperso. Silipo quindi fu a lungo considerato tale, e addirittura l’1 maggio del 1943 il suo reggimento rilascia nei suoi confronti un certificato di ‘irreperibilità’, un modo elegante per dire che probabilmente è morto (o peggio forse ha disertato). Invece il Sottotenente di Cinquefrondi è prigioniero del nemico.

Natale 1942, Silipo prigioniero in marcia verso una destinazione sconosciuta – Dopo la cattura, benchè ferito e malconcio, Silipo fu avviato a piedi per oltre mille km, insieme con altre migliaia di prigionieri, verso Oranki, oggi ridente località a 60 km dalla capitale Mosca, ma a quel tempo luogo di morte e infamia per come i soldati di Stalin trattarono i loro prigionieri italiani.

Verso gli sconfitti non ci fu rispetto, nulla valeva lo status di prigionieri di guerra, nè ci fu spazio per un briciolo di umanità. Quegli uomini, per i soldati dell’Armata Rossa, erano soltanto nemici e invasori, dunque andavano puniti e trattati con durezza, ciò significa che durante le interminabili marce nella neve, con temperature che arrivavano anche a 30 gradi sotto zero, quelli che cadevano a terra, distrutti dalla fatica e dal freddo, e spesso privati anche dei cappotti, venivano semplicemente finiti con un colpo alla testa.

Ai nemici catturati non veniva dato cibo, a meno che non si voglia chiamare cibo una scodella, non tutti i giorni, con dentro una zuppa di acqua e ortiche, o bucce di patate e un pezzo di pane nero. Per i feriti non c’era scampo. I più deboli morivano lungo la strada e venivano finiti e lasciati lì, poi qualcuno li avrebbe buttati in qualche fossa comune.

In quei giorni furono migliaia gli italiani cui fu riservato questo terrificante trattamento, spediti nella maggior parte dei casi a piedi con marce forzate, verso le centinaia di campi di concentramento piccoli e grandi disseminati in tutta la grande Russia, in Moldavia, sugli Urali e perfino nella lontanissima Siberia.

Paradossalmente, dato il contesto, ad avere pietà di quei disgraziati dei nostri connazionali furono soprattutto tanti contadini russi, che al passaggio di quelle lunghe carovane in marcia verso misteriose destinazioni, si avvicinavano furtivamente ai prigionieri, incolonnati e barcollanti, per dare loro qualcosa da mangiare. Una donna, raccontò poi Silipo, lo aiutò addirittura a medicare in modo rudimentale una ferita sanguinante, un gesto che le poteva costare la vita, e che stupì e commosse il giovane cinquefrondese.

I campi di prigionia – Secondo il Ministero della difesa italiano, che per anni ha cercato di saperne di più sui prigionieri, furono circa 400 i campi di concentramento dove furono rinchiusi i soldati italiani (e anche di vari altri Paesi) catturati dall’Armata Rossa. Ognuno aveva un nome e un numero, nella maggioranza dei casi disponevano di un ospedale o infermeria. I prigionieri italiani furono sparpagliati in tutta la Russia. Alcuni lager distavano anche duemila km dalla linea del Don.

Dei circa 400 campi di cui si è avuta notizia, solo 300 sono stati individuati negli anni ’90 grazie alla collaborazione delle autorità ex sovietiche. In tutti gli altri casi ogni traccia è stata nel frattempo cancellata e di migliaia di uomini sepolti nelle fosse comuni non si è mai più saputo nulla.

Silipo fu tenuto prigioniero in due campi, prima in quello denominato Oranki 74, come già detto, e poi in quello di Suzdal 160.

Il campo di prigionia di ORANKI era situato nella provincia di Bogorodsk (Russia centro orientale), e occupava un enorme complesso comprendente i fabbricati di un antico monastero e molti altri edifici. Qui dal gennaio 1943 morirono 661 prigionieri italiani di cui 327 Ufficiali, tutti sepolti in fosse comuni, e successivamente in tombe singole, ma senza indicazioni necessarie per il riconoscimento.

Con la prigionia, il silenzio calò dunque sul destino di Silipo e migliaia di altri suoi compagni di sventura che non potevano mandare alcuna comunicazione fuori dal campo. I soldati russi periodicamente si divertivano a infierire sugli italiani, dicevano loro di scrivere lettere alle famiglie, ma poi invece di spedirle le distruggevano.

Silipo rimase a Oranki per poco più di un anno. Si ammalò di tifo esantematico e anche di bronchite asmatica per la prolungata esposizione al freddo. Inoltre le ferite all’emitorace e al braccio destro, rimediate in combattimento e curate male, finirono per cronicizzarsi.

A Oranki fra gli altri prigionieri c’era anche il maggiore medico Enrico Reginato, un personaggio di rilievo che poi sarà Medaglia d’oro al valor militare. Un uomo di irriducibile dignità, sul quale i russi si accanirono terribilmente, tanto che lo tennero prigioniero addirittura fino al 1954. Reginato curava i feriti per come poteva, ed era amatissimo da quei soldati che ricevevano conforto spirituale e a volte anche sollievo dai suoi interventi pur quasi in assenza di farmaci e altri mezzi.

Il medico Reginato si prenderà cura del giovane Ufficiale cinquefrondese nell’infermeria n. 5 di Oranki dove Silipo fu ricoverato a lungo per tifo esantematico e pleurite destra, e poi dimesso in grave stato di deperimento organico. L’infermeria era priva delle più elementari attrezzature sanitarie e dunque il soldato cincrundiso, come del resto tutti gli altri, non fu sottoposto a nessuna indagine radiologica o microscopica e gli furono date semplici cure ambulatoriali.

Lo stesso medico Reginato riferendosi ai malanni del giovane cinquefrondese scrisse in un rapporto che “l’intenso freddo, l’uso di acque di dubbia potabilità, le fatiche alle quali i prigionieri erano sottoposti, le disagiatissime condizioni di vita, erano causa di frequenti malattie renali nei prigionieri, spesso gravi e mortali”.

In quei giorni il 22enne figlio del re dei frantoi di Cinquefrondi sprofondò in un “grave stato di prostrazione fisica, soffrì di una avitaminosi dovuta -scrive ancora il medico Reginato- all’insufficiente e incompleta alimentazione; i disagi fisici furono causa di un grave stato di anemia, di esaurimento nervoso e di distrofia alimentare caratterizzata da edemi al volto, poliuria e dolori renali, che diventavano più intensi, soprattutto al lato sinistro, nei periodi di freddo o dopo giornate di pesante lavoro”.

Va detto che i prigionieri dei campi di concentramento eerano ospitati in edifici malandati, spesso privi di vetri alle finestre, non disponevano di lenzuola o coperte, dormivano sul pavimento o su tavolacci di legno infestati da cimici e pidocchi, possedevano solo i laceri abiti che avevano addosso, non potevano lavarsi. Inoltre, venivano adibiti a lavori pesanti, alle pulizie del campo, alla coltivazione, alla distribuzione del vitto quando c’era, all’aiuto nelle infermerie, al trasporto dei cadaveri. A volte nel cuore della notte venivano chiamati al comando del campo per essere interrogati !

In quel bruttissimo periodo del 1943 era detenuto a Oranki anche il capitano Giuseppe Joli, (pure lui in seguito insignito della Medaglia d’oro al valor militare). L’uomo si prodiga come infermiere volontario, ed è spesso al capezzale di Silipo quando questi sembra lì lì per morire. Joli racconta in una relazione che Silipo fu “per quindici giorni fra la vita e la morte a causa del grave deperimento organico, delle forti febbri per tifo petecchiale e, in seguito, per avitaminosi, esaurimento nervoso e pleurite; il Sottotenente fu affetto anche da nefrite. Dopo una lunga degenza ha potuto riprendersi non tanto per le cure sanitarie che purtroppo erano paralizzate dalla mancanza di medicinali e vitto, ma per la giovane età del paziente”.

Silipo trasferito in un altro campo di concentramento – All’inizio del 1944 i sovietici decidono di trasferire Silipo, Reginato e altri italiani dal campo di Oranki a quello di Suzdal 160, a circa 200 km da Mosca; lì i prigionieri erano per la maggior parte Ufficiali.

Suzdal è una località nella regione di Vladimir, luogo di turismo e apprezzata per le sue bellezze artistiche. Qui fra il gennaio 1943 e il 15 giugno 1946 morirono 821 militari italiani. A Suzdal nel 1992 l’allora Presidente della Repubblica Cossiga inaugurò una lapide commemorativa dei soldati italiani.

Veduta della odierna Suzdal

In questa cittadina nel XVI secolo si contavano ben undici monasteri, in epoca stalinista l’intero grande complesso religioso e tutto il centro urbano furono trasformati in campo di concentramento. Vi furono internati migliaia di prigionieri, soprattutto italiani e romeni, catturati nella battaglia del Don e durante la ritirata. La maggioranza di loro morì nei primi mesi del 1943 a causa del freddo, della pessima o nulla alimentazione e per una epidemia di tifo esantematico.

Nei campi di prigionia i nostri soldati, oltre alle durissime condizioni di vita, dovettero far fronte anche all’arrivo di tanti antifascisti fuorusciti dall’Italia che si proponevano di indottrinarli, facendo riunioni politiche, diffondendo giornali, volantini e materiale propagandistico per il comunismo. Molti di questi antifascisti erano riparati in Russia e svolgevano nei campi di prigionia una intensa azione politica verso persone molto vulnerabili, quei soldati infatti erano distrutti nel fisico, demoralizzati, timorosi per la loro sorte, ignari di ciò che era delle loro famiglie.

L’arrivo degli indottrinatori comunisti fu un fatto molto grave, perché quei prigionieri erano italiani come loro e soprattutto erano soldati che avevano fatto il loro dovere e non militanti politici da rieducare. Necessitavano di aiuto e non di proclami ideologici.

Ogni tanto veniva proposto ai prigionieri di firmare appelli antifascisti, contro il governo, da diffondere in Italia. Alcuni si lasciavano convincere e firmavano, altri firmavano solo per far sapere ai familiari che erano ancora in vita. Altri ancora non si piegarono mai. Al campo di Suzdal molti ufficiali e soldati misero il loro nome in uno di questi appelli, nel gennaio 1944, ma Silipo non lo fece, si rifiutò insieme con un’altra ventina di colleghi. Il militare cinquefrondese pagò duramente questa scelta: nei suoi confronti infatti, il trattamento carcerario peggiorò: non solo non potè mai far sapere ai suoi che era vivo, ma dovette restare prigioniero fino al 7 luglio 1946, ben 15 mesi dopo che la guerra era finita.

Ad altri, come ad esempio il medico Reginato, andò ancora peggio, perché restarono in carcere addirittura fino al 1954. Per tutti, compresi alcuni semplici cappellani militari, l’accusa era di crimini di guerra, espressione generica e indimostrabile ma utile a trattenere uomini a loro invisi.

Ma facciamo un passo indietro: si è detto che dalla vigilia di Natale del 1942 di Silipo si erano perse le tracce, il suo reparto non aveva notizie, non si sapeva se era rimasto ucciso nei combattimenti, se era fra le migliaia di italiani impegnati in un affannoso e difficile ripiegamento, o se era finito nelle mani del nemico.

A maggior ragione anche la famiglia a Cinquefrondi visse questo tempo con ansia mista a speranza. Ogni giorno senza notizie era un motivo in più per disperare di rivedere vivo quel ragazzo; nello stesso tempo ogni giorno senza che il Ministero della guerra comunicasse l’avvenuta morte del proprio caro, teneva in vita l’attesa del ritorno di Ciccio.

Una mattina del luglio 1943 il postino bussò a casa dei Silipo: il Comando militare informava la famiglia che il giovane Silipo risultava ufficialmente disperso. Si può immaginare lo sconforto dei genitori e del resto dei familiari. Tuttavia papà Raffale, uomo sempre positivo, volle vedere il lato buono di quella notizia: disperso non significava morto, ma solo che non si sapeva dove fosse. Raffaele Silipo era anche un uomo di profonda fede cristiana, tutte le sere dopo il lavoro stava sul balcone di casa e pregava guardando in direzione della chiesa Matrice. Invitava la moglie e gli altri figli a fare altrettanto, a non piangere ma a pregare per il ritorno di Ciccio. Intanto il tempo passava.

La primogenita dei Silipo, Carmela, quella che aveva ospitato Ciccio nella sua casa di Reggio durante gli anni del liceo, nel 1945 ebbe un figlio, e disse che non avrebbe battezzato il suo bambino finchè il fratello non fosse tornato a casa. Era qualcosa a metà fra un voto e una preghiera. Nell’estate del 1945 quell’invocazione ebbe una risposta indiretta: grazie al Notiziario prigionieri, una specie di bollettino che raccoglieva informazioni sugli italiani la cui sorte era incerta, si venne infatti a sapere che Ciccio Silipo era ancora vivo e rinchiuso a Suzdal.

Nell’edizione di aprile del Notiziario, ma di cui si ebbe notizia solo tempo dopo a Cinquefrondi, era infatti pubblicato un elenco di 500 prigionieri detenuti a Suzdal consegnato dal Sottotenente Ludovico Fusco, che proprio da quel campo era stato appena rilasciato. Il nome di Silipo figurava in quell’elenco. A distanza di quasi tre anni finalmente una notizia positiva.

Sempre il Notiziario, nell’edizione del 10 luglio 1945, riportava il nome di Silipo in un altro elenco, diffuso dai russi a scopo propagandistico nel quale si sosteneva: “I seguenti militari italiani, prigionieri in Russia, assicurano di godere ottima salute e inviano baci affettuosi ai familiari lontani”. Sembrava una cartolina di saluti da una vacanza al mare, invece era la pietosa bugia dei russi che cercavano di coprire una realtà fatta di stenti, pidocchi, fame, malattie; il giovane Ufficiale cinquefrondese non si reggeva in piedi, aveva bisogno di cure ed era l’ombra del ragazzone forte e robusto che era stato, altro che ‘baci affettuosi ai familiari lontani’.

Il destino di dieci soldati cinquefrondesi – In quel tragico fine anno del 1942 un destino beffardo si accanì sugli uomini dell’Armir dopo il disastro bellico: una parte di loro cominciò la ritirata dopo la disfatta, nel tentativo di portare a casa la pelle e rientrare in Italia, camminando nella neve per lunghi km, senza niente da mangiare, spesso privi di scarponi e cappotti, nel frattempo depredati, e ogni tanto mitragliati dai soldati sovietici; altre migliaia di italiani invece, nelle stesse identiche condizioni, facevano il percorso inverso, da prigionieri destinati ai vari campi di concentramento.

Nell’uno e nell’altro caso, moltissimi morirono per strada, a causa del freddo, della fame, delle mancate cure, e per quanto riguarda la ritirata molti persero la vita a causa di esplosioni e colpi d’arma da fuoco. Tuttavia molti italiani durante la ritirata furono rifocillati e aiutati da tantissimi civili russi e ucraini, che spesso erano poverissimi, ma trovavano modo di dare qualcosa da mangiare a quei derelitti, rischiando pure l’immediata fucilazione per quei gesti di umanità verso persone mai viste prima.

Nelle decine di libri pubblicati dai reduci della campagna di Russia vengono ricordati con affetto e gratitudine infinta quei piccoli atti di umanità e solidarietà compiuti dai civili, soprattutto contadini, russi, che in qualche modo bilanciavano (si fa per dire) le atrocità commesse dai soldati dell’Armata Rossa.

Alla fine delle operazioni militari, dei 230mila uomini dell’Armir ci furono non meno di 90mila caduti, e dei circa 70 mila prigionieri solo 38mila tornarono a casa.

Provenienti da Cinquefrondi, oltre a Silipo, fra quei soldati c’erano anche il Sottotenente Antonio Naso (anche lui finito a Suzdal) e il soldato semplice Giuseppe Pepè detto Peppino, molto noto in paese ancora oggi, per decenni titolare di un negozio di alimentari in via Veneto, e padre di Domenico Pepè, una figura luminosa del cattolicesimo cinquefrondese, morto giovanissimo nel 1987.

Erano sul fronte russo anche altri nostri compaesani: il caporale Pasquale Lanzeroti e i soldati semplici Arcangelo Bulzomì, Leonardo Romeo, Domenico Oppedisano, Antonio Marca, un altro Domenico Oppedisano, Michele Ieraci, Michele Mercuri, Giovanni Camilliti e Agostino Ciccone.

Di tutti questi cinquefrondesi, inquadrati in diversi reparti dell’Armir, Silipo, Naso e Pepè furono gli unici superstiti. Peppino Pepè infatti completò la ritirata e alla fine rientrò in paese, molto malandato, ma vivo; Ciccio Silipo tornò nonostante le ferite e la prigionia prolungata, e così pure il sottotenente Naso. Andò malissimo invece agli altri dieci soldati cinquefrondesi:

Leonardo Romeo, figlio di Salvatore e di Maria Grazia Mallamace, nato il 5 febbraio 1916. Soldato del 54mo Reggimento di fanteria. Scomparve il 25 aprile 1943 in combattimento nel settore centrale medio del Don (Fronte est) in Russia. Il suo corpo non è mai stato rinvenuto.

Domenico Oppedisano, figlio di Francesco e di Michelina Mileto, nato l’8 luglio 1920, sposato con Catena Iannizzi. Soldato semplice dell’89mo Reggimento di fanteria, poi aggregato alla 308/a sezione di sanità alpina della Brigata Julia. Disperso dal 14 dicembre del 1942. Nel 1994 grazie alle ricerche effettuate negli schedari degli archivi di stato dell’ex Unione Sovietica e dai riscontri effettuati con altri documenti, è emerso che il soldato Oppedisano è stato catturato nel 1942 dai russi durante il combattimento sul fronte del Don, a Nowo Kalitwa, internato nel campo n. 62 di Nekrilovo (reg. Voronez) dove è deceduto il 31 gennaio 1943.  

Antonio Marca, figlio di Maria Marca, nato il 23 luglio 1919. Soldato semplice del 38mo Reggimento di fanteria, scomparve dal 16 dicembre 1942 in Russia in località imprecisata sul fronte del Don. Di lui più nessuna traccia.

Domenico Oppedisano, figlio di Michele e di Carmela Sceni, nato il 23 giugno 1921. Soldato semplice della 308/a sezione sanità dagli alpini. Scomparso il 17 gennaio del 1943 durante le operazioni di ripiegamento. Altro soldato vittima del freddo o ucciso. Probabilmente si riferiva a lui il soldato Peppino Pepè quando raccontava di un suo amico e compaesano, con il quale marciava, morto per lo scoppio di una granata durante la ritirata.

Arcangelo Bulzomì, figlio di Arcangelo e Nunziata Scicchitano, nato il 30 aprile 1922, celibe. Soldato semplice in forza al 52mo Reggimento di artiglieria ‘Torino’, risulta disperso in Russia nel periodo compreso fra il dicembre 1942 e il gennaio 1943.  La mamma di Arcangelo a lungo cercò notizie del figlio, un suo appello fu pubblicato anche sul Notiziario Prigionieri citato prima, nell’edizione del 10 agosto 1945. Il figlio era già morto da quasi tre anni.

Pasquale Lanzeroti, figlio di Arcangelo e di Nunziata D’Agostino, nato l’8 novembre del 1922, celibe. Caporale in forza al 277mo Reggimento di fanteria. Fu catturato dai russi e internato nel campo di concentramento n. 56 di Uciostoje, dove è morto il 17 marzo 1943 per cause imprecisate. Il campo di Uciostoje 56 fu tra i più disumani, insieme con il campo 188, era nel mezzo di un bosco nei pressi di piste di atterraggio per aerei, era quasi completamente sotterraneo. I prigionieri venivano ammassati all’interno di bunker inabitabili, lunghi 15-20 metri e larghi non più di quattro, profondi due metri e del tutto privi di illuminazione e ventilazione, con il tetto fatto di rami, fronde e zolle di terra; in ciascuna baracca trovava posto una cinquantina di prigionieri delle più diverse nazionalità, cosicché era anche difficile capirsi. (…) Dentro ai vani interrati si aveva la sensazione di essere sepolti vivi. Nel Campo 56 di Uciostoje, rimasto funzionante per soli quattro mesi, nel periodo gennaio-aprile 1943, morirono 4.344 prigionieri italiani. Da una statistica il campo 56 è risultato quello con lo più alta percentuale di mortalità, anche se è rimasto in funzione per un breve periodo.

Nel famigerato campo 56 di Uciostoje fu rinchiuso anche Michele Ieraci, figlio di Michele e di Carmela Russo, nato il 17 luglio 1922. Soldato semplice del 277mo Reggimento di fanteria. Ieraci risulta deceduto nel 1943 per cause imprecisate.

Michele Mercuri, figlio di Domenico e di Maria Pronestì, nato il 12 luglio 1918. Soldato semplice in forza alla 62ma squadra della 3/a Divisione alpina Julia. Scomparso il 17 gennaio 1943 sul fronte russo.

Giovanni Camilliti, figlio di Michele e di Grazia Chindamo, nato il 14 ottobre 1911, sposato con Carmela Piccolo. Soldato semplice, apparteneva all’80mo Reggimento di fanteria. Risulta morto l’11 aprile del 1943 e sepolto nel cimitero del campo di concentramento n. 58 di Temnikov, rep. Moldova. Si trovava prigioniero dei russi dal 23 dicembre del 1942. Tale scoperta risale al 1944, fino ad allora il soldato era stato dato per disperso.

Agostino Ciccone, figlio di Domenico e di Maria Porzia Biasi, nato il 23 giugno del 1922, sposato con Carmela Napoli. Soldato semplice, apparteneva all’80mo reggimento di fanteria. Risulta morto in prigionia il 9 aprile del 1943 nell’ospedale n. 1691 del campo di Volsk reg. Saratov, in Russia. Del suo destino si è saputo solo nel 1993 in seguito a nuove ricerche consentite dalle autorità della ex Unione Sovietica, fino ad allora era dato per disperso.

Silipo torna finalmente a casa –  Alla metà di luglio del 1946 il giovane sottotenente, l’ombra del ragazzone forte e robusto che era stato, si presenta a casa a Cinquefrondi e i suoi a momenti non lo riconoscono. Non si reggeva in piedi, pallido, magrissimo, con una tosse insopportabile e il respiro sempre affannoso. E fu grande festa ! Era stato liberato il 7 luglio, messo su un treno e spedito fino a Tarvisio, poi all’ospedale militare di Udine per le prime cure serie e accertamenti vari. Quindi una licenza di convalescenza e il ritorno a Cinquefrondi.

La permanenza in famiglia durò poco, perché dopo un breve periodo di riposo per riprendere le forze e un nuovo ricovero per altri accertamenti, il giovane chiede di tornare in servizio e viene assegnato al Reggimento Garibaldi, dopo un breve passaggio al Comando Alloggi a Napoli.  E qui comincia la seconda parte della vita del soldato cinquefrondese.  Il 16 novembre del 1947 Silipo è promosso tenente, primo gradino di una lunga serie che lo porterà a scalare l’intera gerarchia dell’Esercito.

Intanto, finita la guerra, si vagliano i fatti d’arme, le vicende accadute, i comportamenti dei singoli: il 3 marzo del 1948 Silipo viene insignito del distintivo d’onore per le ferite riportate in combattimento. Un mese dopo riceve la Croce la merito di guerra per la sua partecipazione alle operazioni di guerra del 1942.

Nel 1949 Silipo si specializza come istruttore di impianti e bonifica di campi minati, e diventa addestratore di soldati. All’inizio dell’estate del 1952 è promosso Capitano, e poco dopo passa all’Ispettorato Arma di artiglieria, si specializza nel settore di balistica e, unico nel suo corso, riceve la votazione di 19 su 20, e una lettera di complimenti dal Generale comandante di tutte le scuole di formazione.

Nel 1958 passa al Comando di una compagnia dei Lagunari, corpo scelto dell’esercito con sede a Venezia. La sua carriera subisce un colpo di acceleratore, si trasferisce al Comando del III Corpo d’Armata e poi è destinato al corso di addestramento per ufficiali superiori, che lui supera brillantemente con 18,92 punti su 20, classificandosi al 2° posto nella graduatoria finale su 138.

Nel 1961 fa un altro passo avanti nell’acquisizione di competenze, diventa esperto sulle tecniche di difesa dalla guerra batteriologica,  e supera il Corso di formazione con il giudizio di ottimo e 18,10 punti su 20.

Nel 1962 sale ancora di grado, diventa Maggiore e due anni dopo Tenente Colonnello, torna al comando dei Lagunari e poi all’Ispettorato armi di fanteria.

Per Silipo sono anni convulsi, vola da una parte all’altra d’Italia, gli impegni si susseguono, i malanni pure, periodicamente finisce in ospedale per i postumi della maledetta prigionia. Nel 1968 finalmente pensa un po’ anche a sé stesso e prende in moglie Lucia Guerrieri, una romana di dieci anni più giovane,  che abita dalle parti dell’Eur; breve licenza per il viaggio di nozze e poi via a un nuovo corso di perfezionamento in armamenti e munizioni. Il ten. Col. Silipo si dedica anche alla sperimentazione di strumenti di nuova concezione e porta addirittura la sua firma il Manuale di istruzioni tecniche diffuso in tutto l’Esercito relativo a armi e munizioni di nuova acquisizione, ad esempio i nuovi proiettili per il tiro anticarri.

Nella relazione di fine anno 1968 il col. Giovanni Gallo, responsabile del settore, giudica il lavoro di Silipo ‘eccellente’ e aggiunge: ‘in ogni occasione è giunto a risultati altamente positivi’. Mentre il gen.  Francesco Mereu segnala che l’Ufficiale cinquefrondese ha acquisito una particolare competenza tecnica sull’armamento della fanteria’.

Il 31 dicembre 1970 viene promosso colonnello. A marzo 1971 entra a far parte della Commissione per il conferimento della qualifica di ‘aiutante’ ai marescialli maggiori dell’Esercito. A settembre 1971 passa al Comando del 60° reggimento di fanteria Car a Trapani, ma non dura a lungo perché a causa di guai di salute finisce in ospedale, è costretto a lasciare l’incarico e restare a disposizione del Comando militare regionale.

Nel 1972 è costretto a fermarsi ancora per un lungo periodo per cure ospedaliere varie. Dopo aver girato per tante caserme (Firenze, Mestre, Pordenone, Padova, Venezia, Udine, Trapani) Silipo conclude la sua carriera a Roma. Il 19 dicembre 1976 è promosso al grado di Generale di Brigata. Cinque anni più tardi diventa Generale di Divisione. Infine il 23 maggio 1983 gli viene riconosciuto il titolo di Generale di Corpo d’Armata, ma solo come titolo di fine carriera.

Con Cinquefrondi e i cinquefrondesi, nonostante la distanza e gli impegni, Silipo ebbe un rapporto molto stretto. Intanto, chiunque aveva a che fare con cose militari si rivolgeva a lui per consigli e aiuti, per qualche trasferimento o altre piccole grane. Lui era molto amico del maresciallo Parisi (il cui vero nome però era D’Agostino); questi lavorava al comando dell’Esercito a Roma, anche lui era un cincrundiso doc, sempre gentile e disponibile con i paesani, e chi voleva conferire con il generale sapeva di poter contare sui buoni uffici di Parisi.

In alcune occasioni, e per motivi ben più seri di un banale trasferimento di sede, Silipo intervenne in aiuto di cinquefrondesi in difficoltà. Per ragioni di riservatezza non è possibile entrare nel merito e fare nomi, basterà sapere che per questi suoi interventi ricevette lettere di ringraziamento molto affettuose e grate.

“Solo lei avrebbe potuto dimostrare tanto interessamento e così grande comprensione” gli scrive una persona di Cinquefrondi, aggiungendo: “Ero certissimo che non appena ricevuto il mio accorato appello, si sarebbe precipitato com’è nel suo carattere e nel suo temperamento per cercare di scoprire se il mio grave problema avesse finalmente trovato una soluzione. Che dirle ? è stato come sempre magnifico e mi ha fatto capire che ancor oggi anche nell’ambiente in cui viviamo esiste gente degna del più grande rispetto e di devota stima. (…) Oggi grazie a lei mi ricedo e sono certo che valga ancora la pena avere degli ideali. Nei suoi riguardi io sono niente e nessuno. Ma se un qualunque giorno per un caso fortuito dovesse avere bisogno di me, sono disposto all’impossibile. (…) Le tradizioni non si smentiscono !  Lei e i suoi fratelli onorate ogni giorno sempre di più la memoria di genitori tanto buoni e da tutti stimati. Non pensi che stia esagerando. Sa meglio di me che la famiglia Silipo è stata sempre additata ad esempio per l’operosità, l’intelligenza, il cuore grande che tutti avete dimostrato di possedere. Vorrei poter tornare per un giorno solo a Cinquefrondi e far sapere a tutti che il col. Silipo è quello di un tempo, il Ciccio Silipo allegro, aitante, amicone e, con gli anni, ancora più buono di prima”.

Fin qui la lettera privatissima di un cincrundiso sotto le armi che potè sperimentare le qualità umane di Silipo, il quale però si comportava sempre bene con tutti e aveva un’idea del lavoro e della sua missione militare molto rigorosa. Spulciando nelle carte del suo fascicolo personale ho trovato un’infinità di relazioni riservate sul suo operato da parte dei superiori. Ecco alcuni stralci:

  • “Fisico sano, intelligenza sveglia, carattere aperto, leale, generoso, alquanto impulsivo. (…) Lavora con discreto metodo ed entusiasmo ed ha ottimo ascendente sui dipendenti”. (Col. Mario Cardinale, 23.2.1948);
  • “Professionalmente molto ben preparato, è un ottimo ed efficace istruttore ed educatore. Sa accattivarsi la stima incondizionata dei suoi uomini. Sentimenti morali molto elevati”. (col. Ugo Zaniboni, 31.12.1948);
  • “Notevole senso di responsabilità e attaccamento al dovere. (…) E’ autorevole ed ha ascendente sui sottoposti che tratta con bontà ma senza eccessiva familiarità. Il suo rendimento è ottimo, irreprensibile contegno anche nella vita privata ove tiene al suo decoro. Al ten. Silipo pronto, capace, fattivo, concludente, sono stati affidati diversi compiti che ha sempre brillantemente portato a termine riscuotendo il plauso dei superiori”. (Cap. Giuseppe Vinti, 31.12. 1949);
  • “Onesto, sincero, franco, riservato, tiene molto al suo decoro. In servizio e fuori servizio ha sempre tenuto un contegno inappuntabile. Quale comandante di plotone fucilieri ha saputo addestrare bene i propri uomini dando brillanti risultati al campo d’arma. Mi è sempre stato di valido aiuto, è autorevole con i sottoposti per i quali pone molto interessamento. Ha la stima di tutti”. (Cap. Giuseppe Nitti, 31.08.1950)
  • “Ho avuto alle mie dipendenze come aiutante in seconda Silipo (…) l’ho scelto fra gli altri Ufficiali perchè solo in lui riconoscevo le qualità intellettuali, morali e di carattere necessari per coprire degnamente e con rendimento l’incarico di Aiutante maggiore in un Battaglione distaccato e gravato da una pletora di servizi difficili. Di qualità fisica non comune, ha una resistenza inimmaginabile nel lavoro e uno spirito di adattamento non comune. (…) Di carattere serio, riservato, ha uno spiccato senso di amor proprio e di dignità. Leale, fermo nelle sue decisioni e di una perseveranza di intenti veramente lodevole. (…) E’ idolatrato dai suoi soldati che tratta con ferma disciplina non disgiunta da una bontà d’animo che informa ogni sua decisione. (…) La sua presenza al comando di Battaglione mi ha sempre dato un senso di tranquillità quando per servizio ho dovuto allontanarmi. Nella vita privata si comporta con dignità e decoro, ed è regolato nelle spese” (Antonio Fichera, Maggiore Comandante 1° battaglione reggimento Garibaldi, 31.8.1951);
  • “Ha fisico prestante, sano, resistente che gli permette di sopportare fatiche e disagi notevoli per entità e durata, e di svolgere successivamente, senza sforzo, la propria normale attività. Di temperamento dinamico, volitivo, talvolta irrequieto perché insofferente di inattività, ricerca il lavoro e il moto come una necessità di vita. Mente agile, poliedrica, egli prende vivo interesse oltre che alle questioni di carattere professionale -campo in cui possiede buona e aggiornata preparazione- a varie altre attività culturali. Sensibilissimo e generoso, dà al servizio tutto sé stesso, con passione e dedizione. Nella sua particolare carica di Aiutante maggiore ha dimostrato spiccate doti di capacità di iniziativa, qualificandosi valido e sicuro collaboratore. (…) Per il complesso delle sue doti può essere considerato Ufficiale di elevato rendimento e meritevole di larga fiducia” (14.10.1952 Ten. Col. Cesare Dini);
  • “Riflessivo, serio, molto equilibrato nel governo degli uomini, che tratta con severità ma con grande senso di giustizia. Amante delle responsabilità, che ricerca, ha profuso nella compagnia tutte le sue doti di ingegno e di esuberanza. Lavoratore instancabile e veramente capace, ha sempre ottimamente figurato in ogni occasione. Ineccepibile il suo contegno in servizio e fuori servizio. Ha sempre dimostrato una particolare cura dei materiali a lui in consegna. Il capitano Silipo è un Ufficiale completo, che in ogni occasione ha profuso tutta la sua capacità e tutte le sue energie per far ben figurare il battaglione di appartenenza. Per quanto sopra lo giudico Ottimo capitano comandante di compagnia fucilieri e lo propongo per un encomio” (21.12.1953, Mag. Fausto Di Blas); 
  • “”Di esempio a tutti nelle fatiche e nelle marce. (…) Possiede una cultura generale e professionale veramente notevoli, poche volte riscontrate in un Ufficiale del suo grado e della sua età. Il cap. Silipo ha comandato la sua compagnia in modo egregio, con azione continua, costante, con scopi disciplinari, di governo e addestrativi ben definiti sin dall’inizio. E’ un vero istruttore, ed un vero comandante, rigido autoritario, ma molto umano. Si fa benvolere dai suoi dipendenti. Fanno spicco nel capitano Silipo i sentimenti di Patria, di spirito di corpo, di senso e attaccamento al dovere. Sa esaltare e crede fermamente nei valori spirituali. Devo ringraziarlo con profonda gratitudine per l’attività svolta al comando di reparto, e per la costante entusiasta, e soprattutto fedele collaborazione datami in ogni contingenza, e lo propongo per un encomio” (31.12.1954, Mag. Paolo Buduo);
  • “Disciplinato, molto generoso e sensibile. (…) Conosce benissimo la regolamentazione, le armi e i mezzi della fanteria che sa impiegare con grande senso pratico. E’ ben visto e stimato dai sottoposti per il modo in cui amministra e addestra il reparto e cura gli interessi dei suoi soldati. La sua opera instancabile, scrupolosa e diligente, mi è stata di grande aiuto per l’impianto di numerose esercitazioni e per la sistemazione del battaglione. Lo giudico ottimo e lo propongo per un encomio” (12.2.1956 Mag. Marino Oliosi);
  • “Ho impiegato il cap. Silipo in incarichi addestrativi e operativi inerenti lo studio e la pianificazione dei piani di frontiera; l’ho preposto all’addestramento della compagnia di polizia durante il campo d’arma, e me ne sono infine servito durante la preparazione e la condotta dell’esercitazione Deep Water. In tutti i compiti Silipo ha posto a servizio di una fattiva e intelligente collaborazione, la sua limpida intelligenza e la solida preparazione tecnico-professionale, sorrette da qualità morali di prim’ordine e da solido e adamantino carattere. Mi piace sottolineare del suo carattere la specchiata lealtà, l’equilibrio, la fiducia piena nelle sue forze e possibilità, che gli consentono di affrontare qualunque e impegnativo lavoro in piena serenità. La sua ottima cultura generale, il suo passato di coraggioso soldato, la sua fine educazione ne fanno un compagno d’arme ricercato e gradito, che gode di ascendente sui sottoposti e di grande stima da parte dei superiori. Sono certo che si farà onore nell’incarico che presto assolverà all’Ispettorato di Artiglieria dove è stato trasferito. Vedo con rincrescimento allontanarsi un Ufficiale della tempra di Silipo. Lo propongo per un ben meritato encomio”. (03.10.1957, Col. Diego Fortuna);
  • “Intelligenza brillante per prontezza d’intuito, vivacità di spunti, capacità di sintesi. Ampia cultura generale ben fondata, carattere fermo, deciso, lineare, largo senso pratico; analizza le questioni a fondo e ne sa trarre sempre giudizi appropriati. Espone verbalmente e per iscritto con stile semplice, chiaro e incisivo, ciò che conferma la chiarezza delle idee e la dirittura del ragionamento. Rapido nel lavoro e pur accurato e preciso nella forma. Il cap. Silipo è Ufficiale che considero una vera colonna, dal rendimento pieno e sicuro, e mi associo alla proposta di elogio” (20.08.1960 Gen. Lazzaro Dessy, Capo di Stato Maggiore).

    La lettera del cappellano al btg Isonzo del Comando Lagunari

Nel novembre del 1965 al momento di lasciare uno dei suoi tanti incarichi il cappellano del reparto gli manda un libro con un messaggio di saluto: “Ad un’altra persona ho fatto omaggio di questo libro perché si impegnasse su di esso a compiere il suo dovere e trattasse gli uomini con carità cristiana. Non potevo onestamente darlo a te all’inizio del Comando perché ti fosse di guida, perché tu la carità ce l’hai nel cuore meglio di tanti e pure di me. Perciò te l’offro ora perché ti sia di conforto per quello che hai fatto. Ti abbraccio da vero amico e ti benedico come tuo cappellano”.

Il nipote Lello Ierace, il professore, che vive a Potenza da tantissimi anni, ha un ricordo felice dello zio generale. “Veniva a Cinquefrondi tutte le volte che gli impegni glielo consentivano, lui non aveva figli quindi riversava grande affetto sui nipoti. Era sempre prodigo di regali con tutti noi. Una volta ci portò una rete da pallavolo, lui stesso la impiantò nell’aia della casa di famiglia, e si mise a giocare con noi. Sto parlando degli anni Sessanta quando la pallavolo era uno sport ancora pressochè ignoto. Gli piaceva molto viaggiare, perciò ogni sua venuta in paese coincideva con qualche gita al castello di san Giorgio e in altre località calabresi. Zio Ciccio -prosegue il prof. Ierace- era un uomo di fede, più volte si recò al santuario di Polsi, una volta trascinò anche alcuni nipoti. Noi lo seguivamo sempre, lui era divertente, molto sportivo, sempre in movimento”. Il nipote di Ciccio Silipo ricorda anche la passione dello zio per il canto, “gli piaceva tanto cantare, ricordava anche dei canti russi, il russo è una lingua dolce diceva. Della Russia in generale, nonostante quel che gli era accaduto, non aveva solo ricordi negativi. Una volta si presentò a casa a Cinquefrondi, nel periodo di Natale, con un disco 45 giri con le canzoni ‘Bianco Natale’ e ‘Astro del cielo’, e le fece imparare a noi nipoti per poterle poi cantare tutti assieme a nonna Maria Itria ormai molto malata e quasi completamente cieca”. Della prigionia e della guerra “non amava parlare, era sempre vago quando qualcuno poneva delle domande” dice ancora il nipote, “ma ricordo di avergli sentito dire una volta che quando stava nel campo di concentramento, per non impazzire e per restare ancorato a qualcosa di caro, pensava e ripensava al volto del papà Raffaele. Questo gli dava conforto e forza, in attesa che quell’incubo avesse fine”.

Il gen. Silipo è morto il 22 ottobre 2010 nella sua casa di Roma, ed è stato sepolto al Cimitero Monumentale del Verano nella cappella della famiglia Guerrieri.

 

 

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