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E’ stata una delle insegnanti storiche della elementari di Cinquefrondi. Domani avrebbe compiuto 86 anni. La maestra Bianca era infatti nata a Polistena il 18 aprile del 1936. L’infanzia e la gioventù, fino al diploma di maturità magistrale, le trascorse a Reggio Calabria, un breve periodo a Polistena, tutto il resto a Cinquefrondi. 

Se n’è andata il 17 ottobre del 2021 silenziosamente, cioè nello stesso modo in cui è vissuta. Una sera di otto giorni prima aveva avuto un ictus, subito ricoverata a Polistena, quindi nella notte agli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria. Dai quali è venuta via in una bara, senza che negli otto giorni precedenti fosse consentito a nessuno dei familiari di vederla per un attimo, di salutarla, di tenerle la mano. 

Le sue condizioni erano difficili, c’erano poche probabilità di salvarsi. Ma all’ospedale non hanno avuto pietà, ‘c’è il covid’ dicevano al citofono, non potete entrare. A nulla è valso mostrare di essere vaccinati, di essere pronti a fare un tampone al giorno. L’ospedale di Reggio in quei giorni era deserto, lunghi e ampi corridoi vuoti e spettrali richiamavano alla mente quei film americani sulle metropoli dopo la fine del mondo. E i pazienti chiusi a chiave.

‘Vi daremo noi le informazioni’, dicevano al telefono ai figli della maestra Bianca quei medici reggini, mostrando tranquillità e operosità, e gentilezza pelosa. E in effetti quelle informazioni arrivavano, un giorno alle 16, un giorno alle 15.30, il giorno dopo alle 13, poi alle 19. Al loro buon cuore. Intanto lei era lì, da sola.

Un giorno i figli della maestra Bianca consegnano a un’infermiera della biancheria pulita, e aspettano di riprendersi quella sporca. L’infermiera torna dopo un bel pò, ma con indumenti che appartengono a un’altra persona, ‘forse mi sono sbagliata’ dice agli increduli figli. Chissà di quale poveretta erano quei panni, chissà se alla maestra Bianca avevano davvero dato i suoi.

Tanti chissà si affollavano in quei giorni nella mente dei figli della vecchia maestra di origini polistenesi: chissà se ogni tanto qualcuno va a controllare come sta ?  chissà se ha dato segni di risveglio, ed ha visto qualcuno vicino a lei ? chissà se ha pronunciato qualche parola ? chissà se la presenza di un figlio vicino, l’ascolto di una voce familiare potrebbe essere d’aiuto nel recupero ? chissà ? tanto, chi può controllare o affermare il contrario ?  chi può contestare un comportamento negligente o poco accurato del personale medico e paramedico ? nessuno !

Quella paziente, pur senza avere il covid e senza che lo avessero i suoi familiari, è stata tenuta chiusa a chiave dentro una stanza, lontana da tutto e da tutti per il timore del contagio, ed è stata riconsegnata in fretta e furia ai familiari solo da morta, la mattina del 17 ottobre. Venite, correte, vostra madre è morta, dissero al telefono. Ma come ? quando era viva non ci avete detto di venire, di correre ? lo dite adesso, forse avete fretta di liberarvi della salma, dovete risistemare il letto e la stanza ?

Non ha fatto una buona morte la maestra Bianca. Sola, senza i figli vicini, senza i sacramenti, senza nessuna compagnia che le ricordasse e le confermasse che, anche se in condizioni gravi, restava un essere umano e aveva diritto di morire come tale.

Nella camera mortuaria, squallida come può esserlo un luogo in cui la morte viene banalizzata e trattata come una cosa qualunque, la maestra Bianca aveva tuttavia un volto che pareva rasserenato. I muscoli del viso erano distesi, la sua pelle liscia. Il suo ciuffo bianco spiccava sulla fronte alta, come quando era giovane e felice con i suoi ragazzi a scuola. Era il solo segno positivo, in quella situazione da incubo. Consegni tua madre a un ospedale e non la rivedi più, te la restituiscono morta senza nemmeno farti avvicinare, e tu non hai nemmeno il volto di un medico da odiare, perché per otto lunghissimi giorni non sei riuscito a incontrare fisicamente nessun medico. Follie del covid in un reparto non covid.

La maestra Bianca ha dedicato la sua vita alla scuola, cominciando giovanissima a fare supplenze nelle elementari di Cinquefrondi, Polistena, Taurianova, Rizziconi e Giffone. Finchè nel 1970 divenne titolare e le fu assegnata in via provvisoria la sede di Giffone, dall’anno successivo fu trasferita a Cinquefrondi, dove è rimasta fino alla pensione, nel 2002.

Durante gli anni felici della scuola elementare, appena titolare, ogni mattina andava a scuola scortata dal cane, un pastore tedesco di nome Dick che si era messo in testa di proteggerla. Lui viveva libero, niente catene, era un cane pacifico, benchè di grossa taglia. La mattina quando lei usciva di casa, lui la seguiva a distanza fino all’ingresso del cortile delle elementari, incurante delle torme di ragazzini che arrivavano. Una volta che la maestra era dentro, Dick tornava sui suoi passi, entrava in Villa e andava a posizionarsi sotto la finestra  dell’aula in cui la maestra Bianca insegnava. All’orario di uscita il cane si presentava davanti al portone e riaccompagnava la sua padrona a casa. Dick fece così per anni, finchè non morì, probabilmente perchè qualcuno, come disse il veterinario, gli aveva dato del cibo avvelenato.

L’affetto che la maestra Bianca riversava sugli alunni era talvolta imbarazzante e avrebbe potuto far addirittura ingelosire i bambini suoi. Lei coccolava tutti, teneva d’occhio ogni singolo monello che finiva nella sua classe. Ne curava la preparazione certo, ma ne seguiva molto anche l’umore, la socievolezza, il comportamento. Portava biscotti, cioccolatini e caramelle, sapeva come, a chi e quando distribuire rimproveri e complimenti. Dava ripetizioni gratis a chi doveva recuperare, ma anche a quei piccoli che voleva tenere al sicuro vicino a sé, con dolcezza. E quei ragazzini la ricambiavano, la consideravano una seconda mamma, le raccontavano di tutto, si confidavano, a volte lei veniva a sapere cose che la addoloravano, vedeva famiglie infelici, lì lì per sfasciarsi. Allora interveniva a modo suo, chiamava le mamme, chiamava i papà, parlava, chiacchierava, girava intorno alle questioni, senza mai essere diretta, cercava di appianare, pacificare, incoraggiare con i modi giusti e le parole appropriate. E quando i suoi sforzi non ottenevano l’esito sperato, lei ne soffriva. Ne soffriva troppo, perché ciò fosse normale. In fondo quelli non erano figli suoi, lei era pagata solo per insegnare a leggere e far di conto, non per fare l‘assistente sociale o la psicologa. In realtà quasi nessuno aveva capito niente della sua personalità.

A scuola quando vedeva bambini che parlavano poco, nervosi, in sofferenza, capiva immediatamente che a casa c’era qualcosa che non funzionava. E metteva in funzione le coccole, la tenerezza, la dedizione extra a quei piccoli in difficoltà, li trasformava in figli suoi,  e poi con il suo fare apparentemente distaccato contattava madri e padri, si interessava, domandava, e diceva loro delle cose, parlava dei figli e dei problemi che avevano a scuola. Insomma li metteva in guardia. 

La sua dedizione alla scuola era quasi maniacale, quello  era anche l’unico luogo che frequentava e dove aveva le sue amiche più care, naturalmente tutte maestre: Ines, Anna, Agata, Pina, Antonietta, Maria,  tutte sue coetanee, per le quali aveva un’adorazione e con le quali condivideva dunque anche la formazione professionale e la carriera nell’insegnamento. Nel paese si vedeva poco, giusto al mercato per la spesa, all’edicola per il giornale. Negli ultimi anni della sua vita aveva allentato i rapporti con le vecchie amiche di un tempo, sia perché non c’era più occasione di vederle a scuola, sia per gli acciacchi dell’età, sia perché alcune sono nel frattempo decedute. Una sua nuova amica speciale era la signora Maria. Con la scusa di comprare il pane o la pizza, infatti, la maestra Bianca andava quasi tutti i giorni al forno della signora Maria, e si sedeva a chiacchierare con lei. Le piaceva questa donna energica e semplice.

Quando andò in pensione, il sindaco Michele Galimi, il direttore scolastico Antonino Romeo e le colleghe organizzarono una bella festa, le donarono dei fiori, ma per lei quel giorno non fu di vera festa, perché lasciare la scuola le costava, avrebbe pagato di tasca per continuare a insegnare. Per fortuna l’arrivo dei nipotini e nuovi impegni con queste piccole creature furono un ottimo diversivo per cominciare una nuova vita, e tuttavia riusci a occuparsi ancora di scuola, vigilando sui compiti e sul profitto prima di uno, poi di due, infine di ben sei nipoti. Ma la scuola elementare e i suoi ex alunni gli erano rimasti nel cuore. Ad alcuni di loro, purtroppo morti prematuramente, portava fiori al cimitero, di altri seguiva la crescita professionale, si informava su cosa facevano, continuava a mantenere rapporti con le famiglie dei suoi ex ragazzi, che quando la incontravano per strada erano pieni di premure e gentilezze verso la loro ex maestra. Di ogni bambino ricordava l’anno scolastico e qualche elemento della personalità, di nessuno si è mai dimenticata. Il 18 aprile avrebbe compiuto 86 anni, ma è morta prima di ictue, e sequestrata all’ospedale di Reggio Calabria. La maestra Bianca era mia mamma.


Lettera aperta alla maestra dal ciuffo bianco

di Daniela Raso

Sono assolutamente convinta, che ogni essere umano sia il risultato delle persone e dei luoghi che costantemente gli attraversano la vita, sia che abbiano avuto un ruolo centrale, sia che ci abbiano sfiorato appena, in modo reale o virtuale, giusto per usare un termine “fluido”, contemporaneo, o come quelli che possiamo trovare tra le pagine di un libro. Non possiamo essere solo polvere di stelle; in noi c’è una magia fatta di sentimenti, emozioni, intuizioni, amore. 

Nel mio caso, una di queste persone straordinariamente importanti, è stata la mia maestra, Signora Bianca Gerace, come lei si firmava e come tutti noi la chiamavamo, in realtà lei si chiama Bianca Cordopatri.

Sì, ho detto si chiama, perché per me lei non se n’è mai andata, rimarrà sempre viva nel mio cuore, nello stesso scrigno dove custodisco il ricordo di mio padre.

Della maestra Bianca, ho un ricordo vivo, una raffinata signora dal ciuffo bianco, bella, elegante, per bene, vera, la caratterizzava un modo pacato nel parlare e un tono di voce basso e leggermente rauco, forse per l’usura, accompagnato da un sorriso dolce e materno, nel corso della sua vita si è dimostrata una donna intelligente, acuta, sensibile, molto discreta, garbata, ma al contempo austera, di quelle che ti raddrizzano con lo sguardo.

Erano la fine degli anni settanta, ed io ero appena una bambina, molto spaventata, sofferente, sola e forse anche un po’ arrabbiata.

Mi ero trasferita da poco dal nord con la mia famiglia, adesso posso dirlo con consapevolezza ero per certi versi disadattata, poiché, non comprendevo il dialetto, avevo perso gli amici, la mia scuola, la casa, non riconoscevo le strade, forse per alcuni aspetti non riconoscevo più nemmeno i miei genitori, non erano più gli stessi.

Mi avevano catapultato da un mondo all’altro, avevo cambiato stile di vita: dalle passeggiate domenicali fatte a dorso della mia Bianchi gialla, nella passeggiata di Novi Ligure, Corso Girardengo se non ricordo male,  con tanto di cinema e farinata di ceci, allo squallore di un arretrato paesino, dove le settimane erano fatte da sette lunedì, nessuno era a conoscenza della domenica, eravamo ben lontani dalle fabbriche del nord, dove nonostante tutto c’erano diritti e doveri sindacalmente riconosciuti.

Le scelte hanno sempre un prezzo, ma l’amore per il proprio paese deve essere costato molto anche ai miei genitori, le giornate erano tutte uguali, grigie, fatte di duro lavoro.

Quel treno mi aveva allontanato per sempre dal luogo di nascita e si sa che è dove fai i primi respiri che ricevi l’imprinting e ci lasci il cuore.

Ebbene, questa ero io, ai tempi non potevo sapere ancora, che in quella  via Salvo D’Acquisto, avrei incontrato la mia salvezza, la mia maestra Bianca, è lei che mi ha voluta nella sua classe, non so se per conoscenza dei miei nonni paterni, o per simpatia, o più semplicemente se avesse letto nei miei occhi la mia tristezza o il bisogno di cura.

Io e lei ci capimmo subito, entrammo in sintonia, mi metteva a mio agio, mi faceva sentire bene, il che non è cosa da poco, se consideriamo il fatto che io mi ero rifugiata nel silenzio, mi rifiutavo di parlare,  perché pur non comprendendo il dialetto, mi sforzavo di acquisirlo, infatti nel giro di qualche mese del mio italiano non stava rimanendo traccia.

La maestra Bianca, non si fece impressionare più di tanto del mio “mutismo selettivo”, ne capì la causa, trovò la chiave giusta per mettersi in contatto con la mia intelligenza vivace, così come scriveva sulle mie pagelle: “L’alunna possiede una intelligenza vivace… potrebbe fare di più”.

Straordinaria lei, la quale mi fece capire che quello che io vivevo come un problema, era un valore aggiunto, una ricchezza, e non una cosa da cui fuggire, mi aiutò così a superare il trauma.

Di me, lei aveva capito tanto, che non amavo le attività noiose, ripetitive, meccaniche, erano anni in cui la scuola si basava sulle abilità mnemoniche, come la memorizzazione di poesie, nomi, date,  piuttosto che sul saper fare, eravamo ancor ben lontano dall’imparare ad imparare, ma non ci fu mai una volta che mi mise a disagio, cercava sempre di puntare su quello che oggi noi chiamiamo potenzialità, sapere in divenire, pensiero divergente.

Di me lei amava la mia capacità di apprendere con poco, mi riteneva matura ed affidabile, mi chiamava: “Piccola donna”.

Tra i tanti ricordi che conservo ce n’è uno in particolare: il mio tema di italiano per gli esami di quinta elementare; la traccia doveva recitare pressappoco così: “ Descrivi un episodio che ha caratterizzato questi cinque anni di scuola elementare”.

Io descrissi la nascita del mio unico fratello Salvatore, che adoravo e a volte gli facevo da mamma, me la ricordo andare in giro per le classi, orgogliosa, per far leggere il mio componimento alle sue colleghe; o di quella volta in cui ci fece scrivere un  tema sull’attentato di Papa Wojtyla, io conclusi quel tema con un : “Speriamo che se la cava”, verbo a parte, la fece andare completamente in estasi, perché non ero normale, non ero prevedibile.

Oggi, mi chiedo, chi se non lei poteva dare importanza, a quella parte di me, a quella voglia che avevo di apprendere.

Lei ha contribuito a nutrire la mia curiosità, a sostenere in me l’autostima, la motivazione, nutrimenti essenziali per una mente in formazione e di questo le sarò grata per sempre.

Da parte mia a quei tempi, le dimostravo il mio affetto non facendole mai mancare sulla cattedra i mazzolini di violette, di ciclamini o qualche ciuffetto di prezzemolo, preso nell’orticello di mio nonno che stava proprio sotto casa sua, e che lei dimostrava di gradire particolarmente.

La maestra Bianca deve essere stata anche una mamma amorevole, infatti non mancava mai di raccontare qualche aneddoto della sua amatissima piccola Maria, che dire poi di Teresa e del suo Francesco, lo ricordo ancora quando lo fece venire in classe per farci una lezione d’inglese, ai tempi non c’era ancora la lingua straniera alle elementari, ma lei era all’avanguardia. 

Erano tempi semplici, dove i rapporti umani erano genuini, basati sulla fiducia, a casa mia bastava che dicessi: “Me lo ha detto la mia maestra!” La frase doveva tuonare come un imperativo categorico, perché ricordo che era l’unica causa che faceva arruffare le spalle a mia madre, la quale stringendosi in una smorfia del viso, alzava le braccia e mi rispondeva: “ Se te lo ha detto la maestra !” A volte, neanche proferiva parola, annuiva semplicemente secondo tacito accordo di un arcaico linguaggio dei gesti.

Sono molto grata alla mia maestra dal “Ciuffo bianco” e sono contenta, perché il nostro bene ce lo siamo sempre dichiarato apertamente ogni volta che ci incontravamo, fino a qualche anno fa prima della pandemia.

Ogni volta che la incontravo io ritornavo l’alunna e lei la mia maestra.

Anche io, oggi, sono una maestra, mi auguro di somigliarle almeno un po’, e di essere in grado di trovare anche io la chiave giusta con i miei alunni, così come ha fatto lei con me.

Purtroppo da qualche mese, quando esco da scuola, quella stessa in cui lei mi aveva accolto da piccola, alzando lo sguardo verso la sua finestra non la vedo più affacciata per godersi l’uscita da scuola dei bambini, ma io non ho ancora perso l’abitudine di alzare lo sguardo verso quella finestra per salutarla.

Per sempre grata alla maestra Bianca Cordopatri, la mia maestra dal ciuffo bianco.

Semplicemente la tua alunna  Daniela Carmela Raso                      

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