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Nel 1809 ci fu una terribile strage di cittadini di Cinquefrondi per mano dei soldati francesi. Un evento terribile, al quale seguì l’ordine di Gioacchino Murat di distruggere completamente il paese. 

Di quei fatti si sono sempre avute notizie frammentarie, spesso imprecise. Oggi pubblichiamo la storia di quella vicenda per come effettivamente si svolse. La firma il prof. Rocco Liberti, storico, un’autorità in materia, considerato fra i maggiori conoscitori del passato lontano delle vicende calabresi, e soprattutto della Piana di Gioia Tauro, nonchè autore di innmerevoli pubblicazioni, articoli e studi sugli argomenti più disparati. 

Il prof. Liberti aveva già pubblicato nel 1981, sulla prestigiosa rivista Calabria Letteraria, un articolo sulla strage di cinquefrondesi e quel che ne seguì. Oggi ha accettato di rivedere, ampliare e completare la ricostruzione di quegli oscuri avvenimenti.  


di Rocco Liberti

Quando chi si interessa di storia non basa il suo enunciato sulla documentazione archivistica, ma si affida esclusivamente alla tradizione orale oppure non fa che ripetere ciò che altri antecedentemente hanno similmente consegnato alle stampe, gli avviene di presentare i fatti non come realmente sono accaduti, ma nel senso in cui la fervida fantasia se li è immaginati. È, in buona sostanza, quanto si verifica con le leggende, narrazioni di eventi effettivamente compiutisi, ma i cui elementi sono stati trasfigurati e accresciuti di particolari spesso inventati di sana pianta. 

Tra i tanti scrittori presi al laccio da cotali immaginosi racconti si è ritrovato Michele Guerrisi, il quale, nel rievocare i fasti e nefasti del suo paese, Cinquefrondi, si è lasciato trasportare sulle ali dell’entusiasmo popolare ed è per forza di cose pervenuto a svisarne ogni dettaglio. L’alterazione più evidente si appalesa nella descrizione di un funesto frangente capitato nel corso dell’occupazione francese, allorché parecchi cittadini cinquefrondesi si trovarono ad incontrare inopinata morte per mano dei dominatori di turno.

Riferendo i soliti luoghi comuni dell’onta arrecata alle donne dai soldati, il Guerrisi scrive che gli abitanti di Cinquefrondi, ansiosi di vendicare l’affronto subito e, spinti perciò da odio insanabile, si armarono di tutto punto e una notte prepararono un’imboscata a un drappello di quei prepotenti, che doveva avviarsi alla volta dei finitimi centri di Anoia, Maropati e Galatro. La trappola, a suo dire, funzionò bene, e i militari, sorpresi in una stretta gola situata a metà strada tra Cinquefrondi e Anoia, vennero tutti massacrati senza pietà. L’episodio, che senza alcun dubbio esalta l’opera dei Cinquefrondesi in difesa dei valori patrii, sarebbe stata utile da additare quale esempio alle generazioni presenti e future, ma in verità purtroppo esso si svolse altrimenti e a intero danno di un abitato, che riuscì assai malconcio e avvilito per le gravi perdite patite.

Nel registro dei defunti dell’unica parrocchia di Cinquefrondi, limitatamente al Decennio, non si riscontra la minima registrazione di decesso di soldati, ma quelli ben più numerosi di persone del luogo estinte, in diverse occasioni, per volontà della “giustizia gallica”. Il 1806, anno dell’arrivo dei Francesi nel Regno, trascorse abbastanza tranquillo, ma i successivi si qualificarono forieri di grevi ambasce. Il 15 gennaio del 1807 era rinvenuta cadavere tale Angela Zuccalà, mentre l’11 maggio restava uccisa, forse a colpi di scure (il termine latino è poco leggibile), la trentaseienne Rosaria Leotta di Anoia Inferiore. Altri assassinati dell’annata figurano Francesco Geraci (anni 27) e Felicia Ravesi (anni 24), morti entrambi il 25 giugno. Altresì per il 1808 non si verificarono vicende delittuose, ma l’anno di poi doveva riservare una tragica sorpresa e, nello scorrere le varie particole del liber mortuorum, ci veniamo a trovare addirittura in presenza di una vera e propria ecatombe, che, evidentemente, è legata alla vicenda malamente riferita dal Guerrisi.

Il 13 luglio 1809 morirono disgraziatamente e quasi contemporaneamente 21 individui, tutti di Cinquefrondi, le cui generalità appaiono: Magnifico Francesco Saverio Petullà (anni 45), fabbro Michelangelo Misiti (anni 50), Michelangelo Bellocco (anni 40), Michelangelo Macrì (anni 30), Michelangelo Burzafa (anni 30), Giuseppe Franzè (anni 60), Giuseppe Burzese (anni 56), fabbro Leonardo Perrone (anni 50), fabbro Bruno Ibano (anni 45), fabbro Giuseppe Lemma (anni 20), Francesco Iudica (anni 50), Magnifico Vincenzo Arruzzolo (anni 60), Francesco Iemma (anni 30), Michelangelo Mandarano (anni 56), Nicodemo Sergiovanni (anni 50), Giuseppe Macrì (a. 30), Domenico Zuccalà (anni 16), Francesco Trichilo (anni 36), Caterina Spina (anni 40), Elisabetta Gallo (anni 60) e Gerolamo Pisano (anni 12). 

Ai predetti occorre aggiungere i periti nei giorni seguenti, ma feriti già nell’occasione dianzi citata, Michelangelo Condoluci (anni 20) e il fabbro Michelangelo Silipo (anni 46) deceduti rispettivamente il 17 e il 22. Il sedicenne Giuseppe Ciccia, invece “fucilatus fuit” il 16 antecedente. 

Di tanta strage non poteva mancare un’apposita annotazione sul liber mortuorum e il parroco del tempo, l’economo curato Francesco Palermo, si affrettò a rilasciarne una che ci ha fatto penare per la sua decifrazione. Accusati dai vicini di essersi rivoltati contro, i Cinquefrondesi subirono l’ira di cinquecento tra fanti e cavalieri, i quali, unitamente ai delatori, li assalirono mettendone a morte quasi ventiquattro. Toccante risulta la rappresentazione del paese dopo il tragico episodio, con le case “depopulatas”, i “clamores” dei fanciulli vaganti, il “crepitus” delle scopette, il “pavor” dei cittadini in fuga e il “gemitus” di coloro che invocavano per nome i parenti più stretti. All’alba del 14 luglio Cinquefrondi dovette offrire un ben miserando spettacolo e certamente non vi si ritrovò casa in cui non vi era qualcuno da piangere.

La perdita di vite umane non si fermò però a quel fatale evento e conseguenzialmente si lamentarono nuove vittime della ferocia gallica. Il 29 luglio perì Francesco Condò (anni 60), ch’era rimasto ferito e il 31 veniva “a Justitia fucilatus” Bruno Iamundo. A colpi di fucile furono messi a morte Domenico Conia (anni 22), il cui trapasso è registrato in data 11 agosto e Salvatore Mauro (anni 30) giustiziato il 15 successivo. 

Sempre dal liber defunctorum si rilevano ancora crudeli uccisioni di cinquefrondesi, però non credo ch’essi abbiano a che fare con l’accadimento, di cui abbiamo detto, anche se debbono essere inquadrate in riferimento col periodo turbinoso analogamente vissuto. I delitti di questa seconda tornata riguardano Nicola Lorito (anni 35), ucciso il 12 agosto 1809, Giuseppe Nocera (anni  20), “uccisus extra menia” (sic!) l’11 aprile 1810, Raffaele Alvaro (anni 40), accoppato del pari il 15 aprile dello stesso anno, Francesco Bruno Burzese (anni 30) “feritus icto sclopete” il 19 aprile, il giffonese Stefano Chindamo (anni 60), soppresso anche lui fuori le mura il 26 maggio, Saverio Lemma (anni 50), assassinato sempre “extra menia”, il 20 giugno, Francesco Scarfò (anni 43), “feritus icto sclopete” e quindi morto il 25 giugno e, infine, Michelangelo Varamo, soppresso pure lui “extra menia”, ma “in loco quo vulgo dicitur Cortaglielle” il 25 novembre.

Quali si configurano gli avvenimenti che nel luglio del 1809 culminarono nella strage di Cinquefrondi e quali i motivi di una così efferata azione? Certi documenti dell’archivio di stato di Napoli, riportati da quel completo lavoro sul Decennio che è “Cronache della Calabria in guerra” del Mozzillo, si rivelano quanto mai sufficienti a illuminarci a giorno sul triste caso, che la memoria ha così alterato.

Avendo il corpo di spedizione anglo-siciliano, caparbiamente voluto dalla regina Carolina e dai suoi più fidati collaboratori, occupato il 14 giugno precedente Villa San Giovanni e Reggio, l’attività dei cosiddetti “briganti” venne a intensificarsi, per cui, anche se l’impresa era ormai fallita, molti paesi calabresi furono di bel nuovo contattati dai fautori dei Borboni. Nella congiuntura alcuni centri presero le armi e respinsero gli assalitori, ma altri, vedi Laureana, Giffone e Cinquefrondi “si sono mal condotti”. A Cinquefrondi in particolare venne messa a sacco l’abitazione di Raffaele Manfroci “uomo attaccato al governo”. Secondo la relazione fatta dal capomassa Colonnello Carbone a Palermo, a sollevarsi parimenti a Cinquefrondi, furono pure gli altri centri di Caridà, San Pietro, Laureana, Bellantone, Melicucco, Anoia Inferiore e Superiore, Drosi, Rizziconi, Serrata e Candidoni.

Il comportamento di Cinquefrondi nelle more della ribellione al regime murattiano e nel che poi ne seguì sono bellamente lumeggiati in una lettera che re Gioacchino inviò a Saliceti in data 19 luglio, quindi pochissimi giorni dopo. Con essa il monarca informava il suo ministro della guerra e della polizia che tale era stato il solo a rivoltarsi in tutto il Reame e a combattere in favore dei suoi nemici e che, per ricondurlo alla ragione, c’era stato bisogno di usare le maniere forti. Però, non bastandogli ancora averlo soggiogato, egli desiderava che lo si punisse adeguatamente radendolo al suolo. Chiedeva per tal guisa d’inviargli al più presto una bozza di decreto così concepita: “Considerato che il Comune di Cinque Fronde in Calabria Ulteriore è stato il solo del nostro Regno ad aver levato lo stendardo della rivolta a favore dei nemici dello Stato; considerato quali funeste conseguenze poteva portare una siffatta disobbedienza all’autorità legittima, e che si è resa necessaria la forza per farlo rientrare nell’ordine, avendo ritenuto giusto di bollare di eterna infamia questo comune, abbiamo decretato: “Il comune di Cinque Fronde, in Calabria Ulteriore, sarà raso al suolo e per il futuro nessuno potrà costruire case su questo suolo infame; nella piazza pubblica verrà eretta una colonna recante questa scritta: Il comune di Cinque Fronde fu raso al suolo il tale giorno del tale anno, per aver preso le armi a favore dei nemici dello Stato”.

Non sappiamo come andò a finire la faccenda e se il decreto di radere al suolo Cinquefrondi venne approntato o meno, ma sta di fatto che il disegno non venne mai attuato. I Cinquefrondesi, comunque, ebbero di che piangere sulle loro disgrazie e l’uccisione di cittadini e la minaccia della devastazione delle case li avranno senz’altro convinti a non pensare per l’avvenire a ulteriori alzate di capo e a dedicare il loro tempo a leccarsi le brutte ferite inferte con così inaudita brutalità dai “liberatori d’Oltralpe!

Forte di quanto osservato sul registro parrocchiale, ho voluto controllare quanto al tempo è stato segnalato sui registri dello Stato Civile, ma non vi ho rinvenuto alcuna notazione in merito. È intercorsa una perentoria disposizione dei Francesi o al tempo si usava operare in tale maniera? Quel ch’è certo però è che ci sono tutte le particole relative ai decessi riferiti segnalati per il giorno tredici e tutti a un’ora ben precisa, le duodeci, come scritto. Vi si rilevano quelli di qualche civile come Michelangelo Misiti e di tanti ortolani, braccianti. Le povere vittime furono trucidate in gran parte nelle contrade la Torre, il Borgo, Castello vecchio, Porta nuova, il Trappeto, il Carmine, Chiesa Madre, il Fondaco, San Basile, il Vallone e Santo Lonardo.

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