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                                                                                      Francesco Conia


di Giuseppe Campisi

Una vita spesa per la sua famiglia, arroccata tra le plaghe aspromontane a custodire saperi di un mondo antico, un mondo a volte anche ancestrale e ruvido come quello molto ben descritto nei romanzi di Corrado Alvaro. Nel bilancio dei suoi cent’anni, che gli conferiscono tutt’ora la palma di concittadino più longevo di Cinquefrondi, Francesco Conia, classe 1921, di racconti, aneddoti e, perché no, favole, nella sua vita messa molte volte a dura prova, potrebbe ricavarne a iosa. 


                                                               Francesco Conia


Un matrimonio predestinato (dalla vicinanza di casa delle due famiglie) con Carmela Petullà, scomparsa da qualche anno e sua compagna per oltre 70 primavere, gli ha donato la gioia di sei figli: Angela, Mirella, Antonio, i gemelli Raffaele e Michele ed Elena tutti viventi tranne Antonio, perito tragicamente all’età di 21 anni in un incidente stradale. 

Una famiglia di radice patriarcale coesa e semplice dove ciascuno faceva la sua parte e rispettava il proprio ruolo e dove i figli, ancora oggi, danno del voi al padre. L’orrore subìto d’una guerra mondiale alle spalle, sempre ripudiata, e tanta fatica e dignità per affrontare la vita partendo da un’epoca quella post-fascista, tutta da ricostruire specie nella profonda Calabria del dopoguerra. 


Francesco Conia e la moglie Carmela


Probabilmente, è l’unico soldato combattente ancora vivente della grande battaglia di El Alamein, quella, per intenderci dello storico motto dei parà “Mancò la fortuna, non il valore”, e la stessa per la quale anche le stime dei morti sul campo sono tuttora oggetto di contesa e dalla quale Conia scampò solo per miracolo lasciando, come contropartita sulle sabbiose dune egiziane, una buona fetta della sua salute, prigioniero dei belligeranti inglesi. 


Il difficile trasferimento in patria, le cure all’ospedale militare di Napoli, il ritorno a casa dopo mille peripezie a riabbracciare la sua famiglia riprendendo in mano il sapore della quotidianità contadina ed agripastorale. I segni del tempo e dei sacrifici stigmatizzati sul corpo ormai smilzo e dalla salute incerta a ricordare gli anni “di la bella gioventù” trascorsa al lavoro nei campi o a gestire gli armenti quando per essere davvero felici “abbastava pocu, già mu ndai la panza china ti potivi cuntentari ed eri furtunatu” ricorda con un sorriso emozionato. 


Una vita, la sua, nonostante sia stata condotta lontana dal subbuglio della città goduta quasi tutta nella sua campagna di Petricciana “mprunti a Petrumariu” con il rispetto quieto del ciclo della natura, gli animali, la sapiente maestria dell’arte casearia, dell’intaglio su legno nonostante mani e vista malferme, ed un costante attaccamento ai valori dell’onestà e del rispetto del prossimo lo hanno condotto, pur tra molti travagli, al secolo, donando vita agli anni e non anni alla vita. 

Conia ricorda lucidamente i tempi tristi “di la fami nigra” dove per mangiare si estirpavano persino radici di piante selvatiche e tuberi, che fanno il paio con “ojii la mangiatura è atta” a significare il benessere dei tempi moderni, la dura fatica del lavoro quotidiano di un tempo che non risparmiava nessuno, le mietiture a mano “a Magrumuni”, la risalita delle valli appresso agli armenti, le transumanze a cercare i pascoli migliori in estate, e la cura della terra per il raccolto di ortaggi, legumi, patate e cereali. 


Francesco Conia da giovane


E’ stato un uomo mite ed umile questo contadino che, pur non avendo mai avuto né la patente né altri mezzi di locomozione, ha macinato chilometri di strade battute, sentieri e mulattiere per portare avanti la sua famiglia con semplicità, badando al sodo. Le gambe sono state l’unico mezzo che ha utilizzato nei suoi spostamenti “pemmu calu a lu paisi” fino a quando non incontrava sulla strada qualche amico motorizzato che gli offriva un passaggio accettato sempre di buon grado. 


Nell’aprile del 2021 Conia ebbe la sorpresa di una visita dei medici militari, giunti fino a casa sua per inoculargli il vaccino anticovid. Un gesto molto apprezzabile e apprezzato, voluto a suo tempo dal generale Figliuolo per gli ex anziani soldati. Una specie di riconoscimento dello Stato per i patimenti di una guerra lontana. Conia quel 22 aprile non nascose l’emozione alla vista degli uomini e donne in divisa, che hanno anche richiamato alla sua memoria l’esperienza dei tempi di guerra, della epica  battaglia di El Alamein e anche il dramma della reclusione nei campi di detenzione britannici. 


In occasione del centesimo compleanno dell’ex soldato e contadino cinquefrondese, festeggiato il 12 novembre, nella modesta casa di Petricciana si ritrovarono tutti i figli, i nipoti e i pronipoti di Francesco Conia. Fra gli altri, partecipò anche il sindaco Michele Conia,  con tanto di fascia tricolore, che consegnò al vegliardo una targa ricordo con gli auguri di tutti i concittadini.   

Oggi, che la salute è sempre più incerta, Conia trascorre le sue giornate nella sua “Perciana” in compagnia di figli e nipoti, prediligendo poco cibo ma sano “di la campagna”, e l’immancabile “biccheredu di vinu sinceru”, ultimo baluardo – mutuando l’Alvaro di Gente in Aspromonte – di «una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie». Un tesoro di ricordi da custodire gelosamente e tramandare per evitare che i frenetici sedimenti della modernità possano congestionare le priorità, intaccare la memoria a lungo termine e lentamente quanto inesorabilmente degradarne le radici.  



Festa in famiglia per i cento anni di Francesco Conia, presente anche il sindaco di Cinquefrondi Michele Conia

 

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