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Teresa Zuccalà

 

Ho conosciuto in anni lontani una donna straordinaria e semplice allo stesso tempo. Si chiamava Teresa Zuccalà, ed ha avuto una storia incredibile, che non può non essere raccontata.

Nell’esistenza di Teresa Zuccalà, nata a Cinquefrondi alla vigilia di Natale del 1907 (da cui il secondo nome Natalina) e morta nel 1989, c’è infatti quanto di più fantasioso e interessante e incredibile si possa immaginare; forse nemmeno uno scrittore dalla fervida creatività saprebbe ideare tutte le straordinarie peripezie che hanno caratterizzato i giorni terreni di Teresa.

Era una donna singolare anche nell’aspetto, sembrava fosse sempre stata anziana. Già nelle foto di quando era giovane mostrava una figura da signora, quasi da matrona.  Aveva un fascino misterioso e un che di indistinto che la faceva passare inosservata. Il suo sguardo era sempre pacato, le emozioni controllate. I suoi occhi scuri lasciavano trasparire un temperamento calmo e la forza di una pazienza infinita.

Era la vera padrona di casa e la capa assoluta della sua numerosa famiglia. Carattere di ferro e cervello finissimo. Non aveva studiato, ma ne sapeva più di tutti e non era facile prendersi gioco di lei. Aveva i capelli lunghi ma li portava raccolti in una specie di lunga treccia, arrotolata dietro la nuca, nessuno fuori dall’intimità familiare può dire di averli mai visti sciolti. Camminava lentamente, con un’andatura che sembrava dondolante. Indossava sempre delle grandi gonne scure, lunghe ben al di sotto del ginocchio. Portava delle scarpe nere, buone per tutte le occasioni e tutte le stagioni. Non era una musona, ma raramente si lasciava andare a risate di gusto, prendeva tutto sempre molto seriamente, anche quando non lo dava a vedere. Il suo viso non manifestava sentimenti, tuttavia manteneva un suo contegno particolare, di grande dignità e a suo modo di eleganza antica. 

 

In questa e nelle altre foto Teresa Zuccalà e altre donne di Cinquefrondi ripresa dallo studioso Alan Lomax durante un suo viaggio nel 1954. Le foto sono state donate dalla famiglia Lomax al Comune di Cinquefrondi  

 

 

La signora Zuccalà era attenta e curiosa come un carabiniere, non c’era particolare che sfuggisse al suo occhio, o parola pronunciata che lei non approfondisse per coglierne il significato pieno, consapevole che nei dettagli si nasconde il tutto. Sapeva i fatti di ogni cinquefrondese e tutti in paese la conoscevano e rispettavano. Alcuni la chiamavano familiarmente Pezzana, per via di una sua parentela con la famiglia Pezzano. Parlava lentamente e a bassa voce, sceglieva con cura le parole da dire, non parlava mai a caso. Per i vicini di casa e gli amici era semplicemente ‘cummari Teresa’.

Nata da una famiglia poverissima, Teresa non potè permettersi una normale istruzione scolastica, sfiorò la terza elementare, e fin da bambina fu messa al lavoro. Non si è fatta mancare nessun mestiere: dalla raccoglitrice di olive alla bracciante agricola alla collaboratrice domestica. Sapeva anche di sartoria e cucito, e buona parte di ciò che indossava era frutto della perizia delle sue mani.

Da giovane, non si faceva scrupoli a percorrere km a piedi verso la montagna, per raccogliere legna da ardere, che si vendeva bene nelle case dei benestanti. 

 

 
Teresa Zuccalà a destra, balla la tarantella davanti all’obbiettivo di Alan Lomax nel 1954

 

Per un periodo fece anche le ‘stagioni estive’, come le chiamava lei scherzosamente, cioè vendeva cocomeri agli angoli delle strade. Li andava a comprare al Bosco di Rosarno aiutandosi con un carretto, e poi li rivendeva sulla bancarella in paese. Di notte, per non farsi rubare la merce, si accampava con una specie di tenda al fianco dei suoi preziosi frutti, e dormiva lì. Nessuno, che si sappia, ha mai osato affrontarla. Avrebbe comunque trovato pane per i suoi denti.

Teresa e i suoi non navigavano certo nell’oro, ma in casa il pane non è mai mancato, e quando mancava il lavoro lei si faceva venire delle buone idee, perché la creatività certo non le difettava. Il marito Michele Iamundo era invalido, e non poteva aiutarla più di tanto, ma lei se la cavava egregiamente anche da sola. Trattava con tutti da pari a pari. E non aveva paura di nessuno.

Siccome non era schizzinosa, svolgeva qualunque lavoro, purchè  onesto. Un’altra delle sue incombenze, per lunghi anni, fu quella di andare al fiume per lavare la biancheria di certe famiglie agiate del paese. Lungo lo Sciarapotamo c’erano enormi lastre di pietra levigata, le donne andavano lì a fare il bucato e stendere i panni. Impiego faticoso. Tanto olio di gomito, mal di schiena infiniti. I panni li portava al fiume dentro capienti sciatamedhi di vimini che si caricava sulla testa, compiendo un esercizio di forza atletica e equilibrismo da non sottovalutare. 

 

Concetta Iamundo (a sinistra) entre balla la tarantella davanti all’obbiettivo di Aan Lomax nel 1954 

 

Quando non era tempo di cocomeri, la signora Zuccalà andava al Bosco a raccogliere frutta per i commercianti. E tornava a Cinquefrondi con i soldi guadagnati e qualche chilo di prodotti per marito e figli. Ma il lavoro che aveva svolto più a lungo è senz’altro quello di raccoglitrice di olive, partenza all’alba nei mesi invernali, con qualunque temperatura, tutto il giorno a testa in giù, mani sempre nella terra umida e sporca, ritorno a casa nel pomeriggio. Fisico pressochè distrutto dalla stanchezza, schiena a pezzi. Destino di Teresa, di sua figlia Concetta Iamundo, e di tantissime Terese e Concette di Cinquefrondi e di questa parte d’Italia. E mai un lamento, una lagnanza, una rimostranza, perché quello era lavoro, e il lavoro era meglio averlo che non averlo. Quella fatica dura e malpagata veniva accettata e valorizzata con dignità e compostezza.

In età giovanile Teresa era stata una macchina da guerra sul lavoro, svolgendo lavori fisicamente molto impegnativi; col trascorrere del tempo le sue attività andarono via via mutando, per adeguarsi alle forze fisiche non più freschissime. E qui oltrepassò sé stessa, perché quella signora dall’aria apparentemente ingenua, mostrò quanto fosse invece spiccato il suo senso delle relazioni umane e la sua capacità di conoscere e vagliare le persone che si trovava davanti. In breve, casualmente, divenne addirittura mediatrice matrimoniale. S’inventò quasi una specie di professione dopo aver combinato alcune nozze in via amichevole. Scoprì di avere un talento e lo impiegò. Non aveva certo tariffe, il suo era volontariato sociale e Teresa divenne il crocevia di molte famiglie che avevano qualcuno da accasare. Lei non domandava assolutamente nulla per i suoi servigi, ma qualcuno la ringraziava con un’offerta, altri con un semplice grazie e arrivederci.  A lei quel mestiere piaceva tanto.

 

Incredibile a dirsi, era già molto avanti con gli anni, quando riuscì a diventare, per ragioni insondabili, l’infermiera dell’unico dentista del paese. Lui era di San Ferdinando, di cognome faceva Gaetano, lo studio si trovava  in piazza. Teresa non fece mai alcun corso di formazione infermieristica, non sapeva naturalmente nulla di medicina. Eppure maneggiava bene tutte le paste e le altre sostanze con cui i dentisti si destreggiano nella bocca dei pazienti. Preparava l’anestetico per le punture, conosceva i dosaggi, e sapeva anche gestire correttamente le sanguinazioni dopo che il medico aveva levato un molare o sistemato una gengiva. Era un’assistente perfetta.

Questa incredibile donna, che a malapena sapeva mettere la firma, imparava qualsiasi cosa. E poi vi si cimentava come l’avesse sempre fatta. Il dentista le insegnò tutto e lei sapeva muoversi dentro il laboratorio e fra i flaconcini di medicinali, senza mai commettere errori, come fosse una veterana. Un vero miracolo. Non si creda che qui si stia esagerando: chi scrive sperimentò di persona presso lo studio del dott. Gaetano le qualità di questa sorprendente e bizzarra infermiera. E che si sappia, in anni di servizio nessuno si è mai lamentato.

Quel lavoro piaceva tanto alla signora Zuccalà, si guadagnava benino anche con le mance dei pazienti e non era per nulla faticoso. Grande fu il suo dispiacere quando lo studio fu chiuso dopo la prematura morte del dott. Gaetano in seguito a un incidente stradale. 

 

Teresa, come tante altre donne della nostra terra, ha pagato un altissimo prezzo alla povertà di quei tempi, ritrovandosi più di mezza famiglia, cioè ben 4 dei 5 figli, e numerosi altri parenti, costretti ad emigrare (in Canada) alla ricerca di un futuro che in quegli anni Cinquefrondi non poteva dare.

La partenza dei figli fu un fatto traumatico, che lei accettò in nome del bene che ciò avrebbe significato in termini di crescita economica e di emancipazione dal bisogno. Teresa aveva conosciuto fin da piccola la povertà e non poteva avere desiderio più grande che quello di vedere i propri figli sistemati, pur se ciò costava il loro trasferimento dall’altra parte del mondo. La separazione dai figli le bruciava l’anima, la tormentava giorno e notte nel segreto della sua intimità, che lei però custodiva gelosamente senza mai farne parola in pubblico.

Grande era poi il suo orgoglio soprattutto per il nipote Raffaele Ciccia, figlio della figlia Marianna. Il ragazzo studiava con profitto e presto sarebbe diventato avvocato. Quel nipote era il punto debole di Teresa, lei lo chiamava ‘Rafelino’ come se fosse sempre bambino. 

 

Nella foto Michele Iamundo,marito di Teresa Zuccalà, mentre balla la tarantella davanti all’obbiettivo di Alan Lomax, nel 1954

 

 

Rafelino era l’orgoglio di un’intera famiglia, di un’intera storia familiare. Tutti i figli e nipoti (13 in tutto) si erano in qualche modo ‘sistemati’ come si usa dire. Ma Rafelino con i suoi studi, la sua brillantezza, la sua simpatia esuberante e trascinatrice, il suo importante studio legale aveva riscattato una storia familiare difficile, non avara di sofferenze e privazioni, e talvolta anche di mortificazioni. Teresa vedeva il frutto dei suoi sacrifici in quel giovane ragazzo che si faceva strada in terra nordamericana: partito dal niente, e senza nessun aiuto, si era realizzato alla grande. Ogni rinuncia, ogni privazione, ogni oliva raccolta a mano nella terra umida e sporca, ogni notte passata all’aperto a custodire cocomeri, ogni giornata passata al fiume a sfiancarsi lavando panni per i ricchi del paese, ecco tutto questo (e molto altro) non era stato inutile.

Talvolta, da come Teresa parlava di Rafelino, pareva che gli altri nipoti e perfino i figli passassero in secondo piano nella sua considerazione. Non era così naturalmente, perché a tutti era legatissima; la figlia Concetta, che le è sempre stata accanto, era in realtà il suo vero punto di riferimento, la sua complice e confidente, la persona a lei più vicina, l’unica a cui ha davvero consegnato le chiavi della sua esistenza. Il nipote Rafelino del Canada era il presente e soprattutto il futuro della famiglia, quella con la f maiuscola; ogni sua visita a Cinquefrondi diventava un affare di stato, con preparativi che sembravano cerimoniali, e mezzo paese sapeva con largo anticipo dell’imminente ritorno in patria del nipote prediletto.

Teresa Zuccalà non aveva studiato ma era coltissima e disponeva di una grande memoria; conosceva tutti i canti della tradizione popolare e religiosa calabrese, e li trasmetteva con entusiasmo alle giovani generazioni. Gli studiosi di tradizioni e folklore più volte la interpellarono sulle leggende e le storie della cultura locale. La tv statale canadese realizzò un documentario  e una troupe venne a Cinquefrondi appositamente da Toronto per mostrare al suo pubblico dove e come vivevano Teresa e i suoi. Lo spunto in realtà fu il ritorno a Cinquefrondi, per una vacanza, del figlio Ciccio, da lì ne nacque un affresco sulla famiglia di un emigrato del sud Italia, una famiglia al cui comando c’era appunto Teresa. Un altro studioso di tradizioni popolari, il prof. Alan Lomax, americano, la interpellò in quegli anni e alcune delle foto di questa pagina sono proprio di Lomax.

 

Teresa Zuccalà era una grande conoscitrice del dialetto cinquefrondese, soprattutto di quello più arcaico, del quale conosceva segreti e sfumature. Non a caso, moltissimi anni fa, mi aiutò in un lavoro di ricerca che, a insaputa di entrambi, sarebbe diventato il ‘Dizionario del dialetto cinquefrondese’, da me pubblicato nel 2003.

La vita quotidiana della signora Zuccalà era intessuta di piccole e grandi attività, alcune delle quali al limite dell’incredibile. Di molte di esse, chi scrive è stato testimone diretto. Per esempio era bravissima nell’arte dei massaggi osteoarticolari. Non aveva certo studiato fisioterapia o riabilitazione motoria, eppure erano tante le persone che si rivolgevano a lei per farsi rimettere a posto un arto dolorante. Aveva una tecnica particolare per sciogliere i muscoli indolenziti o accavallati o stirati. Con le sue mani nodose e le sue lunghissime dita, intinte nell’olio da cucina, faceva delle frizioni sulle parti doloranti e si impegnava in lunghi minuti di massaggi, che davano grande sollievo. Dove avesse appreso tale tecnica resta un mistero. Ma, come detto, a questa donna non difettava né la fantasia né la capacità di rapido apprendimento. 

 

Teresa recitava il rosario pressochè tutti i giorni e conosceva a memoria un gran numero di preghiere, apprese quasi sempre senza l’ausilio di un testo scritto. In via Mammola fu per molti anni l’organizzatrice della ‘spedizione’ alla Messa mattutina dell’aurora durante la novena di Natale. Compito che, quando cominciò a non avere più le forze, fu ereditato naturalmente da sua figlia Concetta. Era ancora buio pesto quando in tutta la strada lei passava di casa in casa per radunare i partecipanti. Era la novena che preparava l’avvicinarsi del Natale, un evento suggestivo, si entrava in chiesa che era notte, e all’uscita era giorno fatto. Quel gioco di rapidissima prospettiva temporale smuoveva emozioni nascoste. Rinviava all’eterno riaccadere delle cose, a una tradizione radicata nei secoli, alla storia della società cinquefrondese che ogni anno vedeva rinnovarsi quel rito sempre uguale eppure sempre nuovo.

La Messa dell’aurora in verità non aveva niente di folkloristico. Semplicemente era l’antica tradizione dei contadini, che partecipavano alla funzione religiosa prima di cominciare la giornata di lavoro nei campi. Molti infatti dovevano recarsi lontano  e non sarebbero tornati prima del tramonto. La messa dell’aurora dunque teneva unita la comunità, in gran parte rurale, permettendole di coltivare la propria fede nell’avvicinarsi del Natale, senza trascurare il lavoro. 

 

Teresa come una chioccia si faceva carico di quell’allegra brigata infreddolita, con gli occhi ancora rossi di sonno, ma felice di partecipare a un rito così importante. La chiesa del Rosario si raggiungeva in pochissimi minuti. Ci si sedeva tutti vicini, lei quasi sembrava assegnare i posti, non aveva bisogno di chiedere silenzio, il suo volto diceva da solo la solennità del momento, quindi anche i più piccoli se ne stavano buoni. 

Don Giovanni Galluzzo celebrava, e poi tutti di corsa fuori a vedere il giorno. La chiesa era sempre piena, anche da altri quartieri arrivavano gruppi di fedeli, e alcuni di questi venivano invitati, dopo la messa, a casa della signora Maria, moglie di Ciccio Carlino, a prendere il caffè e scambiare due parole. Un gesto bellissimo che faceva cominciare la giornata in gioia e amicizia, vietato ai ragazzi per via della scuola. Era una cosa per grandi, e donava tanta serenità e calore a chi vi partecipava. Abitudini splendide di un tempo che fu. Un modo per fare comunità e stare assieme, che rafforzava i legami e il senso dell’amicizia.

Cummari Teresa in occasione della festa di San Rocco organizzava i ‘pagghiaredhi’, gli involucri di spine che i fedeli portano addosso per penitenza durante la processione. Lo faceva per sé e per altri, aiutata dal marito Michele, particolarmente abile nell’intrecciare rami e rovi, e creare quella specie di campana dentro la quale si sarebbe infilato il devoto, portandola poi addosso in processione. Un atto di penitenza, un sacrificio offerto al santo. Lungo il marciapiedi di casa, Teresa e il marito Michele deponevano tre, quattro a volte anche di più pagghiaredhi, preparati su richiesta. Per realizzarli materialmente occorrevano pomeriggi di lavoro accurato, e già quella era una penitenza perché i rami affilati e le spine inevitabilmente martirizzavano le mani.

La signora Zuccalà era molto religiosa, partecipava a tutti  i pellegrinaggi della comunità locale, a cominciare da quello di Polsi, cui era devotissima, e poi alle novene e a tutto ciò che il calendario cristiano proponeva ai fedeli, in occasione della festa del Carmine o del Rosario, o della Settimana Santa e in particolare dei sepolcri e dell’agonia. 

 

La preparazione delle piantine per i sepolcri del giovedì santo era un altro dei suoi impegni prediletti, lo eseguiva con cura meticolosa, quasi maniacale. Fino all’inizio degli anni Ottanta, la sera del Giovedì Santo gli altari delle chiese venivano spogliati dei consueti ornamenti sacri, e al loro posto si allestivano i sepolcri.

Sul pavimento, si collocavano fiori e alcune particolari piantine, caratterizzate da tantissimi ‘fili’, come fossero capelli irti; erano coltivati non in vasi di terracotta ma in comuni piatti di porcellana, di quelli che si usano a tavola. Si trattava di germogli di grano, lenticchie, orzo, fatti crescere al buio per farli diventare di colore bianco o verde pallido, per farne un ornamento per il sepolcro. Teresa preparava per settimane queste piantine, con cura certosina, tenendole in scatole di cartone, custodite come tesori preziosi, e guai a chi si avvicinava: dovevano restare al buio totale, altrimenti le piantine sarebbero morte.

Mille altre cose si potrebbero dire di Teresa, che toglieva il malocchio, operava i galletti e preparava la ‘terribile’ bambola di pezza in quaresima, e che nelle lunghe serate d’estate intratteneva i ragazzini del quartiere con racconti e storie d’altri tempi, sul pellegrinaggio a piedi fino alla Madonna di Polsi e su creature misteriose e invisibili che mettevano paura, e tanto altro ancora. Ma occorrerebbe troppo spazio per proseguire.

 

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