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Giuseppe Piccolo
Se n’è andato in silenzio, come in silenzio è vissuto. Si chiamava Giuseppe Piccolo e forse pochissimi lo conoscevano. Viveva da molto tempo quasi recluso nella sua abitazione al quartiere Aracri. Il diabete prima, il calo della vista e altri acciacchi dopo, l’hanno costretto a vivere in modo ritirato e sacrificato gli ultimi anni della sua vita.
Nella foto, Peppe Piccolo da giovane
Voglio rendere onore a Giuseppe Piccolo, perchè è il rappresentante ideale delle centinaia e centinaia di cinquefrondesi che nel corso dei decenni, e soprattutto negli anni ’50 e ’60 lasciarono il paese, gli affetti e gli amici per cercare fortuna altrove, a prezzo di grandi sacrifici e immani sofferenza morali e materiali. La loro è una ferita che non si rimarginerà mai. Ci vorrebbe un monumento in memoria degli emigranti.
Giuseppe, che gli amici chiamavano Peppe o Peppino, partì alla volta della Germania alla metà degli anni ’60 e lì ha trascorso ben 44 anni della sua esistenza. Un’esistenza dura, da operaio nei cantieri stradali e autostradali. Cui si aggiunse l’approccio durissimo con una lingua ostica, per non dire ostile e con cui comunque fece amicizia, e con un ambiente umano tutt’altro che tenero e ospitale con lui, come con tanti altri nostri connazionali.
Peppino l’ho conosciuto da bambino, e con lui la sua famiglia, la moglie Concetta Spanò, i figli Michele (poi emigrato anche lui), Lucia e Antonella, emigrata anche lei. Una bella famiglia segnata da un legame fortissimo, ma devastata dalla maledizione del lavoro che non c’è, e dall’obbligo di andare via dal paese in cerca di fortuna.
Peppe Piccolo (al centro) con due amici, in una immagine di molti anni fa
I Piccolo per molti anni hanno abitato in via Mammola. Quando Peppino tornava a casa per qualche giorno di vacanza era una grande festa. Arrivava con due valigioni pieni di regali per moglie e figli, e perfino per i vicini di casa, soprattutto tavolette di cioccolata, che distribuiva generosamente. Scendeva dal treno a Gioia Tauro e prendeva la littorina fino a Cinquefrondi. Altre volte usava la macchina a noleggio. Non è un emigrato che si è arricchito Peppino, non ha studiato, ha appreso la lingua tedesca un pò per volta, si è schiantato la schiena e le braccia nel duro lavoro di operaio edile con paga bassa. Ma ha avuto una dignità gigantesca. Quando parlava della Germania e del suo lavoro citava sempre i ‘baustelli’, italianizzando la parola tedesca per ‘cantiere’, e raccontava con candore la sua vita nelle baracche per lunghi periodi dell’anno, al freddo, le lunghe serate in solitudine davanti a un bicchiere di birra, le solite chiacchiere con altri operai emigrati, senza nemmeno un televisore con cui passare il tempo. Non c’era acredine nelle sue parole, e nemmeno rabbia, ma addirittura gratitudine, per la Germania che comunque gli aveva dato ciò che il suo Paese non aveva saputo dargli. Un sacrificio immane e gentile allo stesso tempo, accettato con determinazione e orgoglio pur di sostenere la sua famiglia e non fare mancare niente a casa.
Peppino è stato un eroe come tanti dell’emigrazione. Non si lamentava dei sacrifici e non ha mai fatto paragoni con gli altri emigrati che magari tornavano in paese con una macchina grossa, fenomeno che per un certo periodo ha rappresentato il segno del successo di chi era partito da Cinquefrondi. Peppino il suo successo l’aveva trovato in una bella famiglia e in una casa nuova, mentre delle macchine non gli importava molto.
Quando smise di lavorare in Germania e andò in pensione, potè finalmente tornare a casa e assaporare insieme al meritato riposo anche il piacere della vita in famiglia, la possibilità di alzarsi tardi e con comodo, di andarsene a passeggio per un paese che però gli era in gran parte diventato sconosciuto. D’altronde, quaranta e più anni lontano dalla terra natale non passano senza lasciare dei vuoti immensi.
Lui pian piano si era rifatto una vita cinquefrondese e per non starsene con le mani in mano aveva anche aperto, in un locale attiguo alla sua nuova abitazione al quartiere Aracri, un bugigattolo di calzolaio. Non che avesse bisogno di guadagnare, più semplicemente non riusciva a stare senza far nulla. Dopo aver lavorato duramente per l’intera vita, gli sembrava strano dover stare tutto il giorno fermo. Per superare la noia fece dunque il calzolaio e cominciò una sua seconda dignitosissima vita, perchè quel mestiere -svolto finchè la vista non gli si è abbassata troppo- è stato anche un modo per riappropriarsi dei rapporti umani, dei legami e delle amicizie con i cinquefrondesi che gli erano mancati per decenni.
Visse sempre in modo sobrio e riservato. Il massimo lusso che Peppino volle concedersi una volta rientrato a Cinquefrondi fu l’acquisto di un motorino, un Garelli quasi identico al famoso Ciao, una specie di bicicletta motorizzata che i più avanti con gli anni sicuramente ricorderanno. E con quel motorino faceva su e giù con la piazza, dove si fermava a salutare gli amici, e con la montagna nei mesi estivi, dove si recava per prendere il fresco e bere l’acqua di Parlato. Un’altra sua uscita fissa era la visita al mercato del lunedì, che raggiungeva sempre col motorino, per fare un pò di spesa e salutare qualcuno, con il suo perenne sorriso buono e gentile, anche abbastanza timido, nascosto dietro due lenti dai vetri molto spessi.
Negli ultimi tempi le sue condizioni di salute erano peggiorate, la vista volata via quasi del tutto, il diabete a mille, e ieri, lunedì 10 gennaio, l’addio a questa terra. Peppino resterà nel cuore dei suoi familiari e degli amici, ma resterà anche nella memoria storica di Cinquefrondi come uno dei simboli dell’emigrazione e del silenzioso sacrificio di cui la nostra gente è stata capace pur di costruirsi un futuro e dare una speranza alla propria famiglia.