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La caccia al cinghiale
A caccia di cinghiali sulle montagne cinquefrondesi. Sono molti i concittadini che armati di fucile hanno solcato anche i sentieri più nascosti e gli anfratti più lontani della Limena alla ricerca di questi animali. Uno dei maggiori appassionati di caccia al cinghiale è stato senz’altro il geometra Raffaele Gallo, per tanti anni capo dell’ufficio tecnico comunale, che tutti chiamavano familiarmente ‘Angiulino’.
Le boscose e impervie montagne cinquefrondesi sono un habitat perfetto per i cinghiali e nei tempi di caccia, pratica che in paese trova ancora molti appassionati, squadre di cacciatori vi si recano per battute gigantesche, che a volte durano intere giornate, e non sempre si concludono con il raggiungimento dell’obbiettivo.
La battuta al cinghiale è una pratica cruenta. Veniva e viene praticata anche da tante squadre di cacciatori provenienti dai paesi vicini. Con il tempo la popolarità di questa pratica è diminuita.
Con Gallo decine di amici e compagni nelle umide e spesso piovose albe invernali si arrampicavano nelle zone più scoscese della montagna per localizzare e inseguire i cinghiali.
La cosa più difficile era scovare la bestia, individuarne le tracce. Una volta localizzato il cinghiale, bisognava spingerlo verso una zona dalla quale poi non potesse più sfuggire. Quando l’operazione funzionava, per l’animale non c’era scampo.
A dirla così può sembrare una cosa semplice, invece non lo era affatto, le montagne cinquefrondesi sono vastissime e i cinghiali sono capaci di percorrere velocemente molti km in un giorno, cambiando più volte e repentinamente direzione; erano ore di inseguimento, sfiancanti; i cacciatori non sempre riuscivano tenere il passo. Peraltro questi animali captano facilmente l’odore dell’uomo da lontano e quindi si allontanano in fretta.
La caccia al cinghiale è anche molto pericolosa per gli uomini, oltre che per la vittima designata: quando un animale carica, diventa come un’auto senza freni in discesa, come ben sanno tutti quelli che hanno avuto la ventura di sparare un colpo da vicino senza uccidere l’animale. Un cinghiale ferito è come una tigre, la sua furia può essere terribile.
Per molti anni (non sono sicuro che oggi si faccia ancora) quando la caccia aveva buon esito, l’animale abbattuto veniva collocato sul tettuccio di una automobile e portato in giro per vie del paese, mostrato come un trofeo. Segno ancestrale di supremazia dell’uomo, ma anche spettacolo assai suggestivo benchè forse non sempre a tutti gradito.
Gallo, oltre a essere un gioioso capopopolo con i suoi amici era anche una sorta di professionista di questo tipo di caccia, vi si dedicava con passione, e la sua casa era diventata anche una specie di ritrovo di tanti cacciatori che con lui si inerpicavano per le montagne cinquefrondesi alla ricerca del prezioso trofeo.
La carne di cinghiale, molto prelibata, veniva poi suddivisa fra i partecipanti alla battuta; molto spesso si organizzavano gigantesche cene, lunghe serate a cucinare per bene la carne e mangiarla in compagnia e allegria, con tanto vino a scorrere.
A volte venivano presi più esemplari, e quindi tanti pezzi di carne venivano regalati ad amici e parenti. Il cinghiale, suo malgrado, diventava così motivo di festa e allegria, e anche di buone relazioni personali: il dono della carne di questo animale è infatti ancora oggi considerato una gesto di particolare riguardo.
Foto di Renato Gallo, Archivio Gerace, Archivio Storico Tropeano