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Domenico Giovinazzo
Fin da piccolo sognava di volare. E il suo desiderio è stato esaudito. Parlo di un cinquefrondese speciale, Domenico Giovinazzo, colonnello dell’esercito, pilota elicotterista, da poco in pensione. Nato a Cinquefrondi nel luglio 1958, ha trascorso l’intera sua giovinezza inseguendo due fortissime passioni, il volo e la bicicletta. Intere giornate a pedalare ovunque, intere giornate a leggere e documentarsi su tutto ciò che aveva a che fare con l’aviazione civile e militare. Raramente ho incontrato una persona con tanta chiarezza sui suoi obbiettivi di vita come Domenico, che conosco fin da quando eravamo ragazzini.
Nel presente e nel passato di Cinquefrondi ci sono stati diversi militari di carriera, ma un alto ufficiale elicotterista mai. Il col. Giovinazzo è uno di quelli che ha visto da vicino la guerra moderna, che ha usato armi modernissime, che ha avuto paura di essere accoppato.
Neanche gli amici più cari finora avevano mai saputo delle tante attività ed esperienze di questo soldato cinquefrondese, sposato, con un figlio musicista, e residente a Belluno (anche se la sua sede formale di lavoro è stata principalmente Rimini).
Giovinazzo è un tipo allegro, con un carattere solare, che socializza facilmente, a dispetto della sua storia di uomo in uniforme, tenuto a una rigida disciplina e al riserbo, al comando di uomini impegnati in un mestiere molto rischioso anche in tempo di pace, dove non ci possono essere incertezze e superficialità, e dove un minimo errore può costare la vita.
Domenico è rimasto molto affezionato al suo paese e alle antiche amicizie che oggi, con molto tempo libero, ha ripreso a frequentare spesso. Nei suoi anni giovanili, il futuro colonnello ospitava a casa sua annualmente il raduno di tantissimi amici per mangiare le zippule preparate dalla madre, signora Pina, e bagnarle con il vino fragolino che suo padre Salvatore metteva in tavola. Una tradizione gentile che ha lungamente accompagnato il ragazzo di allora, della quale Domenico conserva molta nostalgia e che annovera fra i momenti più belli di quegli anni lontani di vita cinquefrondese, prima che il lavoro lo chiamasse lontano.
Quella che segue è una piccola parte dell’intervista nella quale il col. Giovinazzo per la prima volta ha raccontato in pubblico la sua storia, senza tralasciare alcun particolare, anche quelli più inaspettati o riservati della vita in divisa. L’intervista integrale si può trovare nel libro ‘Lessico della memoria’, pubblicato nel 2020.
Cominciamo dall’inizio: come ti è venuta questa passione per il volo?
E’ stata una cosa naturale, sin da ragazzino ero interessato e appassionato al volo. Questa passione mi è venuta da mio papà, Salvatore. Lui aveva partecipato alla seconda guerra mondiale in qualità di aviere nel 5° Stormo della Regia Aeronautica e oltre a farmi vedere piccoli cimeli e fotografie, ogni tanto mi raccontava le gesta di piloti che lui aveva conosciuto.
Parliamo del tuo arruolamento sotto le armi, quando e dove è avvenuto?
Mi sono arruolato nell’aprile del 1982. La destinazione fu Viterbo, presso la Scuola Aviazione dell’Esercito. Ma prima avevo fatto due anni di Accademia Militare.
Come sei finito nel settore elicotteristico?
Nel bando di arruolamento c’era scritto che richiedevano piloti sia di aereo che di elicottero. Ricordo di avere scelto tra i due il primo, l’aereo era la mia passione. Ma ebbi una piccola delusione quando seppi che tutto il mio corso (25 piloti) era destinato agli elicotteri. Fu così che mi ritrovai a fare il corso di elicotterista.
Che compiti hanno gli elicotteristi e dove sono dislocati?
Sono molteplici in base al tipo di elicottero che si utilizza, quindi ci sono piloti dedicati ai trasporti logistici e al supporto, e piloti dedicati a linea combattimento, esplorazione e scorte.
Su che tipo di velivoli hai operato?
Finito il corso piloti ho operato su Agusta Bell 206 un elicottero da esplorazione e scorta, ormai usato solo per la scuola volo e non più operativo. Su questo elicottero ho volato per circa 10 anni, poi sono passato all’Agusta Bell 412, un elicottero da trasporto logistico e supporto. Gli ultimi 20 anni della mia carriera invece li ho trascorsi pilotando il Mangusta, un mezzo da combattimento.
Per volare bisogna avere coraggio o essere temerari e incoscienti?
No, nessuna delle due. Per volare bisogna avere solo passione per il volo. Non c’è spazio per la temerarietà o l’incoscienza. Un volo deve essere programmato, pianificato, condotto con razionalità e regole ferree e precise. Non c’è spazio per la fantasia o per l’improvvisazione.
Dai voli normali a quelli in zone di guerra o alle missioni di pace…
Fino al 1996 mi sono addestrato con compiti da combattimento o supporto al combattimento. Finchè sono rimasto su macchine da ricognizione e supporto, le mie missioni sono state prevalentemente in Italia e a scopi generalmente civili: ricerca e soccorso, trasporto malati, servizi antincendio, ecc..
Nel 1996 sono stato abilitato a pilotare l’elicottero da combattimento A-129 Mangusta. La prima missione è stata nel 1997 da Brindisi a Tirana (Albania). Eravamo una coppia di Mangusta e scortavamo un aereo con a bordo Romano Prodi, all’epoca Presidente del Consiglio.
Era la mia prima missione in assoluto in zona operativa. Era l’epoca degli sbarchi in massa di albanesi sulle nostre coste. In quella prima missione ero tesissimo, feci il volo di andata e ritorno tutto contratto, con una paura addosso incredibile, sensazioni fortissime che col senno di poi si rivelarono esagerate e non giustificate da nessun pericolo, anzi la Missione si svolse invece in un modo incredibilmente facile. Quella fu per me una sorta di vaccinazione perché tutte le altre sia in Albania che in Kosovo, Iraq e Afghanistan le ho condotte in piena consapevolezza e coscienza di quello che stavo facendo.
Quante missioni di pace hai fatto durante la tua carriera di soldato?
Ho fatto 11 lunghe missioni, cosiddette di pace, anche se in qualcuna di queste la sensazione di pace non l’ho proprio avvertita. Sono stato in Albania, 1997; Macedonia, 1998; Iraq, 2005 e 2006; Afghanistan (8 volte) dal 2007 al 2015. Inoltre ho svolto missioni addestrative in Polonia, Francia e Inghilterra.
Hai scelto tu di andare in missione o sono stati i tuoi superiori?
Quando le Forze Armate sono impegnate in qualsiasi tipo di Operazione, arriva l’ordine di preparazione dallo Stato Maggiore. Solo una volta mi hanno chiesto se ero disponibile, nel 2007 quando si sapeva che un gruppo di Mangusta sarebbero andati in Afghanistan. Il Comandante mi chiese: “te la senti di andare”? Senza esitare dissi di sì. Molti piloti si erano tirati indietro perchè, le notizie che arrivavano da quella zona erano insufficienti per capire cosa stesse succedendo. Nel 1998 invece fui inserito in un gruppetto di piloti da mandare in Albania, me compreso; si richiedeva la capacità di volo notturno, in tutta l’Aviazione c’erano solo 8 piloti con questa qualifica e io ero tra questi.
Che cosa hai pensato la prima volta che sei andato in una zona “calda” del mondo?
Ansia e tensione si manifestano soprattutto durante la pianificazione della missione oppure prima del decollo. In volo poi tutto svanisce e mi sono sempre concentrato su quello che dovevo fare e sullo scopo della missione. Non ho più avuto tempo e spazio, nella mente, per pensare di avere paura. La responsabilità era e rimane una cosa fondamentale in queste situazioni. Responsabilità per quello che devi fare, per non sbagliare, per garantire la sicurezza al tuo membro dell’equipaggio, al gregario che in quel momento ti vola a fianco. Responsabilità nel non coinvolgere civili e soprattutto responsabilità nel portare a termine la missione e dare protezione alle truppe a terra.
In Missione di “pace”, ma con armi pronte a sparare e alla guida di elicotteri da combattimento, non c’è contraddizione secondo te?
Ho sempre avuto la mia opinione su queste cosiddette missioni di pace. C’è molta contraddizione e ipocrisia, nazionale e occidentale. E’ certo che dove si spara non c’è sicuramente una situazione di ‘pace’. L’ipocrisia occidentale sta proprio nel volere coprire con due semplici parole quello che è in realtà, cioè ‘guerra’.
In Afghanistan sono morti 53 militari italiani, oltre a un centinaio di feriti. Secondo le dottrine Nato, Onu e nazionali si parla in termini quali ‘Peace Keeping’ (mantenimento della pace) oppure di ‘Peace Enforcement’ (imposizione della pace), due espressioni in voga da tempo, ma se si fa attenzione ai termini mantenimento e imposizione, si capisce subito che la situazione prevede, prima o poi, l’uso delle armi.
Ti hanno mai sparato addosso? Quante volte hai rischiato di lasciarci la pelle?
Mi hanno sparato addosso, si. Durante l’ultima missione svolta nel 2015, eravamo decollati perchè gli Insurgens, (combattenti che utilizzano sistemi e metodi terroristici, ndr), avevano attaccato un convoglio di 40 autocisterne e quando siamo arrivati ne avevano già incendiate 10. In quel momento, lungo i circuiti a protezione delle autocisterne rimaste integre, abbiamo visto proiettili traccianti che venivano verso di noi. Abbiamo risposto al fuoco, ormai stava facendo buio.
La situazione sì è protratta per circa 45 minuti, loro sparavano a noi e noi a loro. I risultati non li so. Poi, via radio abbiamo avuto l’ordine di rientrare. Non escludo che in altre occasioni ci abbiano sparato ma di giorno è difficile vedere i colpi in arrivo a meno che non ti prendano, in quel caso te ne accorgi eccome. Nostri elicotteri sono stati colpiti in diverse occasioni, fortunatamente senza conseguenze per gli equipaggi.
C’è da dire che questi ‘Insurgens’ utilizzavano armi portatili e non avevano missili perchè altrimenti conteremmo gli elicotteri abbattuti. L’unica arma pesante che utilizzavano contro elicotteri erano gli RPG, arma anticarro sovietica a traiettoria balistica, nel senso che dopo 100 metri di volo la traiettoria del razzo da tesa diventa curva e cominciano a cadere. Ce li hanno sparati addosso in diverse occasioni, in una anche contro di me. Con questo tipo di arma hanno anche distrutto un paio di elicotteri americani in fase di atterraggio.
Hai visto morti e feriti, distruzione e odio, ti è venuta mai voglia di venir via e lasciar perdere tutto? Lo scoramento appartiene ai militari, o siete vaccinati contro questo tipo di sensazioni?
No, nessuna voglia di venire via e lasciar perdere tutto. Lo Stato mi ha addestrato e ha speso molte risorse per farmi raggiungere un alto livello sia addestrativo che di professionalità. Questo è il nostro compito, il nostro lavoro, il nostro impiego e questo facciamo in ossequio alla Costituzione e al Parlamento Italiano. Ho visto morti e feriti, italiani e non, ho visto le bare dei militari italiani rientrare in Italia. Questo è il prezzo da pagare perché c’è sempre un prezzo da pagare, nessuna missione è indolore.
Dal punto di vista deontologico, professionale, non mi è mai passato per la mente di lasciar perdere tutto e di chiedere di rientrare, ne va dell’orgoglio, della professionalità, del giuramento prestato, della coerenza e della coscienza. Se avessi chiesto di rientrare, ma non c’erano motivi per farlo, mi sarei sentito un traditore, un vigliacco. Lo scoramento ci appartiene eccome!! scoramento dovuto al disagio, scoramento dovuto alle istituzioni che sembra non ci supportino a dovere. Scoramento verso i nostri vertici militari che con risorse economiche ormai ridotte ci mandano in quelle zone senza un supporto logistico adeguato.
Le discussioni tra di noi a volte vertevano proprio su questa mancata vicinanza, mancanza di affetto delle istituzioni, della popolazione italiana in generale. Si ricordano di noi solo quando c’è il ferito, il morto, per il resto niente.
Ti è mai capitato di sparare a qualcuno? Cosa si prova in quei momenti?
Sì, mi è capitato di sparare, ho fatto 5 azioni a fuoco in Afghanistan. Al comando della pattuglia di Mangusta ho sparato e dato supporto aereo a favore dei nostri militari ma anche in aiuto dell’Esercito Afghano, dei soldati spagnoli e di quelli statunitensi.
Mi ricordo la prima azione che ho fatto. Era luglio del 2008. dovevamo semplicemente scortare due elicotteri afghani che trasportavano viveri e munizioni presso una loro base a Nord di Herat. Il nostro punto di incontro era a metà strada tra Herat e Bala Mourgab dove gli elicotteri afghani dovevano atterrare e scaricare il materiale. Lungo la rotta però mi chiamano via radio, stavano attaccando un convoglio afghano e mi ordinano di sparare a tutto quello che si muove all’intorno del convoglio. A un certo punto vedo davanti a me il convoglio con alcuni autocarri in fiamme, gli elicotteri afghani da scortare erano sotto di me e non capivano la situazione di pericolo, tramite radio li mando via in malo modo perchè ormai la zona non è più sicura. Vedo davanti a me una fila di militari armati sia di kalashnikov che di RPG anticarro venire verso di me, noi eravamo a circa 300 mt di altezza. Comunico al mio gregario di prepararsi a fare fuoco e contemporaneamente dico al mio copilota che sono pronto a sparare; porto il dito sull’ interruttore di sparo, guardo i militari afghani e mi accorgo che alzano le braccia, si sbracciano e mi indicano qualcosa. Beh, rimetto la sicura e mi fermo. Scopro che sono soldati afghani che stavano perlustrando la zona per eliminare i cosiddetti Insurgens. Capisco l’errore, sarebbe stato fuoco fratricida e meno male, perchè altrimenti sarebbero state veramente grosse rogne per me. Avverto il gregario della situazione e in base alle indicazioni visive date dai militari afghani, individuiamo questi Insurgens, ci predisponiamo al circuito di fuoco e cominciamo a sparare col cannoncino di bordo da 20 millimetri.
In quella occasione ho sparato per la prima volta in vita mia ad un uomo, un afghano in moto armato di RPG, poi a un altro nascosto in un canalone e che all’arrivo dei miei colpi è caduto giu. Ho ancora queste due immagini scolpite nella mia mente. Finite le munizioni rientriamo alla Base presso gli spagnoli per rifornirci di carburante e munizioni e mentre rientriamo vedo RPG andare a colpire altri camion, uno mi esplode sotto, per terra, me lo avevano sparato contro. Atterriamo dagli spagnoli, ci riforniamo e dopo un’ora ripartiamo per un’altra azione a fuoco. Beh non la faccio lunga, una vera e propria battaglia con i morti afghani che avrei rivisto poi portati alla Base, recuperati da un nostro elicottero.
Ma in generale, secondo te, tutte queste missioni che l’Italia fa qua e là nel mondo, sono davvero utili?
No. Assolutamente no. Hanno provocato solo morti e feriti tra i militari italiani. Risultati positivi secondo me niente. Vero, abbiamo costruito, scuole, qualche strada, qualche presidio medico, abbiamo portato la luce in qualche piccolo villaggio ma niente altro.
Il Domenico giovane, aspirante aviatore è lo stesso del Domenico di adesso fresco di pensionamento? Ci sono rimpianti personali o di carriera? Rifaresti tutto?
Sì sempre uguale e sempre appassionato per le cose che volano. Nessun cambiamento. Nessun rimpianto. Credo di avere svolto onestamente, con dignità, impegno e sacrificio il mio lavoro non venendo meno al giuramento prestato come militare. Ecco, forse se dovessi ritornare indietro magari mi dedicherei più alla famiglia. Per il resto si, rifarei tutto.