Questa notizia è stata letta 394 volte

Vorrei trovare le parole giuste per raccontare la storia di Licia Pronestì Seminara, una nostra concittadina che per tutta la vita ha seminato amore e tenerezza, senza nemmeno rendersene conto. E ci ha lasciato in eredità, oltre a un luminoso ricordo personale, anche scritti e parole indimenticabili. La vicenda umana di questa donna cinquefrondese fu segnata profondamente dalla morte di un fratello in tenera età e dalla forza della sua straordinaria famiglia.

Per chi volesse farsi un’idea approfondita di Licia, consiglio un bel libro intitolato  ‘Le poesie di Licia Pronestì Seminara’ (Luigi Pellegrini Editore, pag. 295, 14 euro); non è una generica raccolta di versi, come ce ne sono tante, talvolta noiose e di scarso valore. Ma un piccolo tesoro, una raccolta di perle delicate e preziose, piene di sapienza, da gustare a una a una, accompagnate da tante fotografie che raccontano un pezzo di storia della nostra cittadina. Ne parleremo meglio più avanti.

Prima, vorrei dire qualcosa su questa signora, nata a Cinquefrondi il 26 agosto del 1929, che sicuramente i più giovani non conoscono, ma che ai più anziani dice molto, perchè la sua personalità esuberante, i suoi modi gentili, la sua capacità di creare relazioni positive, le sue attività sociali, nonchè la sua bellezza, non passarono certo inosservati nel corso della sua esistenza.


Apparteneva a una famiglia numerosa e solida, guidata con saggezza e mano ferma da un personaggio molto noto nella Cinquefrondi del secolo scorso, il maestro Francesco Pronestì. Costui era un insegnante elementare, per decenni impegnato nella scuola del paese, noto per la sua severità in classe; aveva fatto importanti studi di lettere classiche, amava e conosceva il greco e il latino, aveva letto tutti i grandi autori del passato. Era però un uomo semplice, che viveva in maniera umile e sobria; in paese molto rispettato, una specie di autorità cittadina, in aggiunta al sindaco, al parroco, al farmacista. Alto, magro, con la camminata lenta, i suoi modi avevano un che di burbero, il suo sguardo talvolta accigliato e interrogativo metteva soggezione; portava capelli lunghi e spesso arruffati, sempre in disordine, tanti giovani del suo tempo lo adoravano. Per loro era un maestro non nel senso di scuola, ma in quello di uomo saggio, esperto nelle cose della vita, un uomo che poteva dire la sua sul mondo intero, e diceva cose evidentemente interessanti che valeva la pena di stare a sentire in lunghi pomeriggi trascorsi in campagna all’ombra di un albero, o nella villa comunale.

Pronestì esercitava un grande carisma sui giovani, di molti ragazzotti cinquefrondesi fu insegnante a scuola, ma soprattutto fu trascinatore e guida, diciamo così, spirituale, e per taluni anche politica. Aveva vissuto appieno l’epoca fascista e non aveva cambiato idea dopo la guerra, tuttavia non si era mai dedicato alla politica attiva, era più che altro un pensatore libero.

Il maestro Pronestì e la moglie Maria Galluzzo ebbero cinque figli, cioè Licia e quattro fratelli. Il primo, Tullio, morì giovanissimo nel 1948, all’età di 20 anni, dopo aver contratto il tifo, malattia all’epoca incurabile (la cura venne scoperta poco tempo dopo la morte del giovane).
Il secondo, Peppino, divenne un apprezzato dirigente all’ufficio tecnico del Comune di Cinquefrondi, ed ha abitato con la sua famiglia nella casa paterna in via Montebello, fino alla morte avvenuta nel 2012.
Il terzo, Guido, impiegato in Banca a Gioiosa Marina, dove viveva con la sua famiglia, è scomparso nel 2015.


Il quarto fratello, Ugo, si era stabilito a Marigliano (Napoli)  dove, dopo una prima esperienza lavorativa all’allora Alfa Sud, si dedicò a lavori nel campo dell’elettricità e dell’ elettronica. Morì nel 1991.

Licia, destinata a diventare un autentico personaggio, era dunque l’unica donna del gruppo. La sua mamma, Maria Galluzzo, era una donna bellissima, considerata fra le più belle del paese. La figlia prese da lei. E prese da lei anche il carattere, l’allegria, la capacità di instaurare amicizie e legami duraturi, il senso fortissimo della famiglia, una profonda fede cristiana, la generosità.
La famiglia Pronestì fu a lungo considerata al suo tempo, e in certa misura anche oggi da chi conserva qualche memoria di quell’epoca, come una bellissima famiglia. Molto unita, molto solidale, molto genuina e spontanea nei rapporti, nelle cose quotidiane, perfino nei litigi che pure non mancavano. Merito di quel padre pensatore e di quella madre tenerissima, capace di uno straordinario senso dell’accoglienza.


L’armonia di quel nucleo familiare, che viveva in una modesta casa a pochi passi dalla chiesa del Rosario, fu funestata dalla tragedia, quando morì improvvisamente il primogenito Tullio, a causa del tifo, che a quel tempo non lasciava scampo. Quel giovane brillante aveva poco più di vent’anni, la sua fine repentina creò lo sconvolgimento che ciascuno può immaginare. Un bel ragazzo, simpatico, sportivo, pieno di sogni, orgoglio della famiglia che per lui immaginava un grande futuro. Poi l’infezione maledetta, la mancanza di cure, la fine.
Mai un genitore dovrebbe sopravvivere ai propri figli, e certo è durissima anche per fratelli e sorelle !
Quel dolore mostruoso scavò una ferita profondissima nell’intimo della famiglia Pronestì, il maestro si incupì, perse il sorriso, smarrì la voglia di chiacchierare, per un certo tempo non uscì più nemmeno di casa, ma poi si fece forza, mantenne un contegno, affrontò la prova con grande dignità e guardò avanti, perchè gli altri figli avevano bisogno di lui.
Alla madre, usando le parole evangeliche, una spada trapassò il cuore; le lacrime scendevano copiose sul suo bel viso, ma anche lei pensò agli altri figli prima ancora che a sè stessa, il suo pianto divenne segreto, nascosto, per non rattristare ancora più il resto della famiglia, ma non abbastanza da non essere scorto da Licia, ragazza ormai in grado di capire, di interrogarsi sul destino terribile di quel tanto amato fratello, sul mistero insondabile di quell’evento, e sulle lacrime di una mamma eroica che si sforzava di sorridere e consolare gli altri.
La tragedia unì ancora di più, se possibile, la famiglia Pronestì, ma a Licia accadde anche dell’altro, cioè ne trasformò il carattere, la fece crescere molto in fretta. Si può dire che da lì prese avvio la formazione del suo spirito poetico, del suo animo gentile e pensoso, la voglia di comunicare, di dire, di annunciare, di andare oltre le apparenze, di guardare alla realtà con compassione, di condividere con altri ciò che passava nelle vie segrete del suo cuore.

Fu così che Licia cominciò timidamente a scrivere, a mettere nero su bianco pensieri e riflessioni, ma solo moltissimi anni dopo avrebbe esternato ufficialmente questa sua attività, pubblicando nel 1977, all’età dunque di 48 anni, la sua prima raccolta di liriche intitolata ‘Ombre e luci’ con la quale peraltro vinse il concorso nazionale del Convivio Letterario a Milano.
Racconta la figlia Giovanna: “Sin da bambina la presenza di mia madre si accompagnava all’immagine di lei intenta a scrivere. E’ un’immagine viva, presente, dolcissima”. Giovanna la ricorda “seduta al tavolo del soggiorno o del suo studio che insegue i suoi pensieri, la fronte corrugata, lo sguardo intenso. Il fruscio lieve della penna sul foglio lo sento ancora oggi, come vedo il suo sorriso mentre cerca intorno a sè qualcuno a cui leggere le sue poesie”. E aggiunge che Licia “scriveva, scriveva per se stessa e per gli altri. Scriveva per le feste dei compleanni, per le ricorrenze più svariate. Tirava fuori dal ‘cilindro’ i suoi regali, che infiocchettava con il suo sorriso aperto, schietto, unico, con la parola che si piegava al suo volere e si faceva incanto, meraviglia,… poesia!”.

Licia fu una poetessa dell’anima e dell’impulso più che della testa, la sua istruzione era stata molto modesta, scuola elementare e poi la media, nulla di più, il resto lo aveva appreso dal nonno e dal padre, da tante letture personali. Fu amica del famoso scrittore Fortunato Seminara, originario di Maropati, con il quale ebbe negli anni anche lunghi scambi di missive letterarie e al quale sottoponeva spesso i suoi scritti.
Questa donna era una forza della natura, trascinava e affascinava, e non solo per la sua bellezza e la sua parlantina. I suoi modi erano garbati. La sua fede religiosa, semplice e genuina. Le sue domande sulla vita, autentiche. Le sue lacrime, vere. La sua passione per le cose, tutte le cose che faceva, era sanguigna ed evidente. Ed è questo ciò che rese straordinaria la sua vita ordinaria.
Licia era generosa e altruista, per tutta la vita ha aiutato le persone bisognose, senza preoccuparsi di farlo sapere in giro. Correva a consolare chi necessitava di conforto, nel momento del bisogno era sempre pronta ad aiutare, anche se qualche volta soffrì per l’ingratitudine di qualcuno. In una poesia parla di una persona cui aveva aperto le porte nel momento della difficoltà, ma che poi le aveva voltato le spalle, eppure conclude la lirica con queste parole:

“…
Ma se ripassi davanti alla mia porta
ed ancora hai tu freddo
e forse fame;
ribussa ancora
come quella sera.
E come allora t’offrirò ristoro
accendendo la fiamma del camino
e spartirò con te l’ultimo pane
piangendo insieme a te
se soffri ancora.
Perchè t’amo fratello
e ho già scordato
la tua porta serrata
sulla tua casa, illuminata e in festa.

Fece la catechista nella parrocchia di Cinquefrondi, e l’avrebbe fatto poi anche in quella di Gioia Tauro dove anni dopo si trasferì a vivere con il marito Giovanni Seminara, sposato all’età di 22 anni, lui ne aveva 26, originario di Maropati.
Dopo le nozze, la coppia andò a vivere in una casa in Piazza Duomo, proprio di fronte alla chiesa Matrice, era un’abitazione piccola ma accogliente.
“Ha sempre collaborato con le attività della chiesa, diventando presidente dell’Azione Cattolica, che ha diretto con entusiasmo e passione” dice la figlia Giovanna, e aggiunge che sua madre fu “sempre impegnata nel sociale, attenta alle esigenze e sofferenze degli altri, in tutta la sua esistenza si è prodigata per il suo prossimo.. Profondamente religiosa ha vissuto la sua fede con coerenza”.
Qualche anno dopo si trasferì in via Canada, vicino all’attuale ufficio postale, infine l’ultimo trasferimento della sua vita, a Gioia Tauro, città dove il marito esercitava la sua attività imprenditoriale.

La signora Pronestì Seminara fu moglie e madre affettuosa e attenta, sempre presente. Ebbe due figli, Giovanna e Giuseppe. Si deve proprio a Giovanna la cura del volume che raccoglie le sue poesie, e l’impegno a rinnovare la memoria di questa donna straordinaria e umile. Alla figlia la signora Pronestì dedicò nella notte del 2 giugno 1997, come da lei stessa annotato, una lirica che è anche una preghiera e una benedizione, un inno alla maternità e nello stesso tempo una sorta di biografia in versi della ragazza, dal momento del concepimento fino al matrimonio e alla nascita di un figlio.
Licia scrisse anche un volume di racconti, testi per il teatro e articoli per riviste su vari argomenti.

Molti forse non sanno che portano la sua firma anche una commedia e delle poesie in dialetto cinquefrondese; alcune di queste liriche, del tutto inedite, sono raccolte nel libro di cui abbiamo detto prima. Sebbene con qualche occasionale (e perdonabile) incertezza in fase di traslitterazione, problema comune a quanti si cimentano con le insidie e le varianti di pronuncia del vernacolo, le parole di Licia corrono come un fiume in piena e travolgono chi legge. Chi non ha conosciuto di persona suo papà, il maestro Pronestì, se lo vede d’un tratto davanti, presentato con poche pennellate da Licia, e gli pare di conoscerlo da sempre. Ecco che cosa scrive l’autrice nella poesia intitolata ‘A patrima’:

Quandu lu jornu cala chianu chianu
e già lu suli l’urizzonti abbasa,
nu preghju a mmia mi veni ntra lu cori
pecchì lu patri meu torna a la casa.

Mpena chi trasi, puru s’è arragatu,
cu ‘nu surrisu la caseda alluci:
pe’ tutti ‘na carizza, n’abbasata,
e no nci manca na palora duci.

Iornu e notti fatiga e no ssi lagna,
mai si pigghja ‘na ura di riposu,
lu megghju idu vorria pemmu ndi duna,
e a stu penzeru mai no mpigghju posi.

Nenti ndi cerca in cangiu, sulu amuri
comu cumpenzu a tutti li so’ doni,
sempi ndi dici: ‘Figghjcedi mei,
penzati ‘mu studiati e siti bboni!’.

O patri meu, senza di tia ‘sta vita
e st’esistenza mia chi servaria ?
Ntra li strati perduti di lu mundu
senza di tia, mi dici, chi farrìa ?

Sarrìa comu ‘na notti senza stidi,
comu ‘nu celu scuru, senza suli
comu ‘nu voscu senza ‘nu violu,
comu ‘na barca senza ‘nu timuni.

E pregu lu Signuri mu ti dassa
pe’ sempi mu camini a fhiancu a mmia,
ca senza lu toi amuri e la tua manu,
ntra chista vita eu mi perdaria !

Raramente si trovano parole così dolci e struggenti rivolte a un papà. Licia in questa lirica enuncia con genuinità non solo l’amore per il genitore, ma soprattutto il suo essere fragile e vulnerabile, il suo aggrapparsi a quest’uomo buono e affettuoso, che quando torna a casa, la sera, va a salutare e baciare a uno a uno tutti i figli, manco fosse stato lontano per mesi. E’ in questi gesti delicati e teneri che si costruisce l’amore nelle famiglie, che si educano i figli a stare al mondo, Licia ne è entusiasta e li racconta con naturalezza e felicità, ma anche spaventata per il vuoto immenso che quel padre lascerà il giorno in cui non ci sarà più.

L’amore per la sua famiglia, la poetessa cinquefrondese lo esprime anche in quella che è, a mio parere, fra le sue poesie più belle in assoluto, sia per la scelta delle parole, sia per il ritmo martellante con cui esprime i suoi pensieri. S’intitola
Nc’era ‘na vota:

Nc’era ‘na vota ‘na mamma e ‘nu patri
cu tanti figghj cogghjuti a roteda,
nc’era ‘na casa mpastata d’amuri
c’assumigghjava a ‘na favula vera.

Nc’era ‘nu nonnu, vecchiuni, vecchiuni
nc’era ‘na nonna chi preci dicia,
nc’era ‘nu gattu vicinu a lu focu
chi quetu quetu li fusa facia.

Già questo quadretto di famiglia è sufficiente da solo a trasmettere una forte emozione, sembra di vederlo il soggiorno di casa, e quei genitori che alla sera siedono con i figli ‘cogghjuti a roteda’ intorno al braciere, e c’è pure il nonno ‘vecchiuni vecchiuni’, e la nonna intenta alle preghiere e perfino il gatto di casa ‘quetu quetu’, tutti riuniti, è tempo d’inverno, ci si riscalda a vicenda, stando vicini e raccontadosi le cose al termine della giornata. E’ il trionfo dell’intimità familiare, che Licia mostra con le parole, e a noi sembra invece di guardare un video. Poi prosegue così:

Era atta atta la casa, e lu suli
lu primu raggiu da nnui lu mandava
quand’era notti cogghjemu li stidi
mentri la luna arridendu guardava.

Chini di buca li mura, di fora,
e dà l’accedi facenu folia,
o chi ammujnu chi nc’era la sira
ca ‘nu triatu la casa paria !

Comu passaru fughjendu chidh’anni!
Mo’ chida casa è cchju beda d’ajeri,
mo’ li stupparu li buca a li mura
e s’astutaru li canti d’accedi!

Se ndi chiamanu, lu cuntu no ntorna,
(tanti trovaru risposta a lu credu)
manca lu patri, lu nonnu, la nonna,
e manca puru lu figghju cchju bedu !

L’atri, la vita chi a tutti cumanda,
comu lu crivu lu ranu d’istrau,
e ntra la casa ch’è ormai troppu randi,
sulu la mamma, dà, sula, restau.

Restau mu teni lu focu adumatu,
pemm’è ‘sta vampa pe’ nnui ‘nu richiamu,
nui di luntanu sentimu lu caddu,
ed ogni tantu a la casa tornamu.

E drà trovamu li sonna perduti
e li ricordi di chida roteda,
quandu cu patri, cu mamma, cu frati,
era la vita ‘na favula vera.

Sono meravigliosi questi versi, vanno letti e riletti lentamente. Sembra di vedere, anzi di udire, il borbottìo dei colombi che hanno fatto il nido dentro i grandi fori delle mura esterne di casa, situazione diffusa e comune a tante case della vecchia Cinquefrondi. Chi non se lo ricorda ?
Licia poi torna al presente, al ricordo di quelli che non ci sono più (con un verso lapidario, ‘tanti trovaru risposta a lu credu’), la sua fede genuina e forte non ha bisogno di altre parole. Ma tanto grande è il vuoto per l’assenza di quel ‘figghju cchju bedu’, cioè il fratello Tullio morto giovane, al quale è dedicata anche la poesia ‘Il pero caduto’.

Infine, c’è spazio per la madre adorata, rimasta sola nella grande casa ormai vuota, e tuttavia impegnata a tenere ‘lu focu adumatu’, che non è naturalmente quello del camino o dell’antico braciere intorno al quale la famiglia si ritrovava ‘a roteda’, ma è il fuoco dell’amore, che non si spegne mai perchè c’è sempre la mamma Maria a tenerlo acceso per i figli lontani. Ci sono ancora sentimenti così nelle nostre famiglie ? Licia li aveva respirati nell’ambiente sobrio ma sereno di casa. Il papà maestro non ce la faceva a mantenere tutti i figli col solo stipendio della scuola, così s’industriava in altri lavori per non far mancare nulla ai suoi ragazzi e soprattutto per farli studiare. La madre casalinga era la chioccia premurosa, il ricovero degli affanni di tutti, il porto dove l’approdo era sicuro.
In un’altra poesia, l’autrice cinquefrondese ricorda momenti di grande intimità e confidenza tra madre e figlia:

Mamma, della mia infanzia benedetta
che tu lieta rendesti col tuo amore,
fra le brume sfocate del passato
nitida ancor ricordo la tua mano.
Lieve io la risento in sulla sera
a benedire il sonno che veniva
e la carezza sua, blanda e soave.

La risento paziente ravviare
i riccioli ribelli, scompigliati
dalle corse nei campi
e a cura amorosa ancora risento
con cui li pettinavi,
e ogni giorno una foggia t’inventavi.

E poi più tardi, trascorrendo gli anni,
bimba non più, ma non ancora donna,
nel balcone indorato dal tramonto,
io mi sedevo, madre,
sullo sgabello accanto ai tuoi ginocchi
dove poggiavo il capo,
e di me ti parlavo.

Ti confessavo i sogni,
le speranze non ancora deluse
dall’imptto spietato con la vita;
i primi turbamenti dell’amore
nel mio fresco fiori d’adolescente.

Tu in silenzio ascoltavi, o madre mia,
e nella sera che scendeva quieta,
sentivo il cuore tuo vicino al mio
mentre la bella mano,
sui miei capelli ormai ben pettinati,
era lieve e leggera
come sull’onda l’ala d’un gabbiano.

E quando giovinetta ancora ignara
conobbi il ghigno atroce della morte
nel sorriso ormai spento
del fratello adorato,
e il terrore del nulla,
di quell’angoscia nuova, sconosciuta
mi spauriva e mi mozzava il fiato
dando al mio sguardo lampi di follia,
tu, madre benedetta,
tu nello strazio atroce più del mio,
tu crocifissa insieme al figlio tuo,
con il cuore squarciato
di tua maternità ferita, offesa,
scordasti il tuo dolor per darmi aiuto,
e la tua mano ancor mi terse il pianto.

E ancora oggi che il tuo capo è bianco,
ed il tuo cuore ormai pulsa a fatica,
per sopportare il peso della vita,
ancora, mamma, io mi appoggio a te.

Licia Pronestì Seminara ha vissuto larga parte della sua vita a Gioia Tauro, città difficile, teatro purtroppo di molti atti di criminalità. La poetessa dall’animo gentile è colpita da quanto le accade intorno, non capisce come ci possa essere gente che spara e ammazza, il mondo che ha conosciuto lei è quello dell’amore, dell’affetto, della tenerezza, dove non c’è posto per la violenza. Così nelle sue liriche oltre ai sentimenti e alle vicende familiari trova spazio -e non uno spazio marginale- il disagio, anzi lo sgomento, di fronte a tanta criminalità, alla quale si aggiunge il frastuono sempre più assordante degli atti di terrorismo rosso e nero che spargono sangue in mezza Italia, sono gli anni di piombo, le ideologie rovinano la testa di molti giovani che pensano di migliorare il mondo uccidendo della gente. La poetessa cinquefrondese atterrita di fronte alla malvagità e a tanto inspiegabile odio, scrive allora “Abbrazzamundi frati”, con la quale si rivolge direttamente a malviventi e terroristi, invitandoli tutti a deporre le armi e ad abbracciare la via del perdono:

Sempi, già di lu tempu di Cainu,

sangu nnucenti arrussicau la terra,

ma mò sta diventandu ‘na fhjumara

chi scurri cchjù di quandu c’è ‘na guerra.

Mò troppu brutta diventau ‘sta vita

 troppu Caini vannu strati strati,

troppu casi chiuduti pe’ sbentura

e troppu li nnocenti assassinati.

Tropp’orfanedi vannu lamijandu,

troppu cori di mammi lardijati,

troppu rovina nc’è ntra chistu mundu

ca troppu frati ammazzanu li frati.

Troppu sangu vagnjau tutti li chiazzi,

troppu cruci ntra tutti li puntuni,

troppu morti jettati ntra sipali

o arrocculati sutta a li timpuni.

Ntra li chiazzi nci sugnu li banderi,

di destra, di sinistra, russi e nigri,

o chi belli deali sugnu chisti

chi fannu di dui frati dui omicidi.

Ntra li sipali, mbeci li lupari

a tradimentu sparanu a la schina

e cadinu li genti a d’unu a d’unu

ghjettandu ntra li cari la rovina.

O Cristu, Cristu, chi muristi a fari

supa la cruci, all’aria mpiccicatu ?

chi predicasti a fari pe’ tri anni

se chistu ccà, mò è lu risurtatu ?

Predicasti l’amuri, e nc’è lu feli,

predicasti la paci, e nc’è la guerra,

moristi mu ndi mpari u perdunu,

ma perdunu no nc’è supa sta terra !

O frati mei, ca tutti simu frati,

e frati a tutti vogghju mu vi chiami,

astutati chist’odiu ch’è belenu,

ca Cristu cumandau pemmu nd’amamu !

Jettati ‘sti lupari e ‘sti banderi,

se puru li banderi fannu dannu,

scordativi vinditti e malucori,

e tradimenti, ammazzatini, ngannu !

Abbrazzamundi tutti ‘natra vota

Comu ‘nu frati cu ‘nu frati faci,

ca sulu l’amuri e lu perdunu,

cangia lu mundu, e nnui trovamu paci !

 

Licia era umanamente onnivora, si occupava di tutto, seguiva tutto. Leggeva nell’animo altrui, introiettava sentimenti e sensazioni e li trasformava in liriche, calandosi nei panni d’altri. E non le sfuggiva il mal di vivere del suo e nostro tempo, che spinge sempre più persone su sentieri effimeri nei quali cercare le risposte alle grandi domande della vita, così mette nero su bianco versi di esistenzialismo puro:

Omu, ma undi vai sempi fughjendu ?
vai sutta e supa e no nti fermi mai;
comu piroci giri notti e jornu,
chidu chi cerchi, mancu tu lu sai.

‘Nu jornu doppu l’atru, l’anni sani
passi cercandu sempi corchi cosa,
passa la vita e mancu ti nd’adduni,
e chistu cori toi mai si riposa.

Cerchi progressu, sordi, casi novi,
machini mu vai sempi cchjù fughjendu,
e no nt’accorgi ca li cosi veri,
li cosi belli, tu li stai perdendu !

                                                 Fermati, guarda, vinni primavera,                                                                                                          ntra li campagni già nci su’ li fhjuri                                                               goditi st’aria fina, l’erba frisca,
ca pe’ ttia ti li fici lu Signuri.

dassa ‘na sira ‘sta televisioni,
(la luna è ‘nu spettaculu cchjù bedu!)
affacciati ‘na vota a la finestra
e irgili chist’occhi pe’ lu celu.

Tanto altro si potrebbe dire di Licia Ponestì Seminara e tante altre poesie si potrebbero citare dalla vasta produzione dell’autrice cinquefrondese, che ha ottenuto riconoscimenti dalla critica, e premi e segnalazioni in gran parte dei concorsi nazionali ai quali ha partecipato. C’è un’altra bellissima poesia che è impossibile non citare, è apparentemente dedicata alla mamma, non alla sua in particolare, ma a una mamma generica, una mamma dei nostri paesi, rimasta sola in casa, che vive nell’attesa del ritorno di un figlio che vive lontano. Una mamma di paese, povera e vestita a nero, consumata dalla fatica del vivere quotidiano e dai malanni dell’età, epperò viva e fiera, con una dignità quasi regale nel niente che possiede. Sembra di vederla questa donna, le parole che Licia usa come fotogrammi ce la mostrano durante l’attesa del figlio, vissuta attraverso piccoli gesti, sempre ripetuti ogni anno.

La poesia s’intitola ‘Povari mammi’, fu scritta nel luglio del 1978 nell’epoca più dura forse del terrorismo, e valse a Licia il riconoscimento del primo premio al concorso letterario ‘Giugno locrese’; è un inno alla maternità e nello stesso tempo un durissimo atto d’accusa contro la violenza, da qualunque parte provenga. Questi versi infatti raccontano di una povera mamma che un bel giorno invece del figlio, tanto atteso, riceve la visita dei carabinieri venuti a informarla che quel giovane è morto tragicamente, vittima di un non precisato attentato. Non sappiamo a quale episodio di cronaca si riferisse la poetessa. Con tutta la forza espressiva che possiede, Licia urla il suo monito a quelli che uccidono, ‘o mafia, o brigatisti, o russi o nigri….fermativi…’. La poetessa sorprende il lettore con quel finale inaspettato, ‘povari mammi’ sono tutte le mamme che hanno perso un figlio a causa della stupida barbara violenza della criminalità comune o di quella di origine politica.

Vecchia comu ‘na cerza di cent’anni

ntra ‘na caseda menza sdarrupata,

nc’era ‘nu curupedu di quattr’ossa:

era ‘na mammareda assulicata.

La facci arripicchiata e ngrunzuluta

comu ‘nu truncu siccu d’olivara,

li patuti mostrava e li fatighi

di ‘na povara vita longa e amara.

Ntra ‘nu testu dui coccia di suriaca

gugghjenu chianu ntra lu focularu

a li mura Madonni e figuredi

e lu ritrattu di ‘nu visu caru.

Quando lu suli cu ‘na spericeda

arrivava mu tocca lu scaluni,

s’assettava ‘nu pocu, fora, a l’aria,

e queta ripezzava lu ghjppuni.

Poi cu li mani sutta a lu faddali,

li patannostra sempi ida scurria,

li labbra nci siccavanu dicendu

lu rosariu a la Vergini Maria:

Ndavia nu figghju a chidi chiani-fora,

‘nu figghju bedu chi paria ‘nu suli,

l’unicu amuri di la vita sua,

e crisciutu l’avia comu ‘nu fhjuri.

Quando venia Natali, la caseda

senza lumi o lumera s’allucia

ca tornava lu figghju di luntanu,

e l’occhiu di la mamma si schiarìa.

‘Nu chiuppu idu paria tant’era longu,

e mu nci guarda li capidi rizzi,

la testa avia mu vota pe’ darretu,

ca quasi nci toccava li cannizzi.

Sutta sutta arridia la vecchiareda:

‘Possibili ca chistu è figghju meu ?

Nu jditu di fimmana eu sugnu,

comu lu tinni ntra lu ventri meu? ‘’

Quandu partia, lu cori nci scasava

Ma cittu si stacia senza ciangiri

Ca n’annu passa prestu, e pe’ Natali

Certu avi natra vota di veniri.

Ma quandu scumparia ntra lu senteri,

li mani chi tremavanu l’irgia

e cu lu cori cchjù ca cu la vuci,

pe’ centu voti lu benedicia.

‘Figghju, mu t’accumpagna lu Signuri

Beneditta la minna chi sucasti,

li fatighi chi fici mu ti crisciu

e tutti l’abbasati chi mi dasti!’

Si ndi tornava poi a lu focularu

e pe’ lu fumu l’occhi si stujava,

pregava lu Signuri pemmu aspetta

l’atru Natali, prima mu la chiama.

E chid’annu paria l’ura sonata,

ca lu ghjppuni cchiù no ripezzava,

e chianu chianu nci sbattia lu cori,

e chianu chianu puru rifhjatava.

Ma no mancava assai per lu Natali,

e a ‘stu penzeru ripigghiava fhjatu:

s’avia di fari forza pe’ lu figghju,

cui nci dava sennò lu benturnatu ?

Ndavia ntra ‘nu cirmedu dui castagni,

‘na buttiglia di vini chi frija,

avia trovatu puru ‘nu capuni,

ca già la ciarameda si sentia.

Quandu li carbineri cumpariru

mu ncinnu ca tornau, ma non appedi,

sbidicau l’occhi senza capisciri:

chi sapia di protesti e di banderi ?

Nci lu spegaru, e allora chidu cori

‘na caja diventau senza parlari,

la terra cu lu celu si spezzaru

e la Madonna seppi a nginocchiari.

A curupedu ncucchia a lu tambutu,

la barva chi toccava li dinocchja,

ferma comu ‘nu cippu ida stacia,

lu muccaturi nigru supa a l’occhia.

O mafia, o brigatisti, o russi o nigri,

vui chi tutti li chiazzi arrussicati,

fermativi davanti a ‘sta caseda

e chistu curupedu cuntemprati !

Sutta  la Cruci, fu ‘na Mamma sula,

ma chist’atri Carvari no mbiditi ?

Fermativi, spicciati d’ammazzari !

Ma ‘na Mamma vui allora, no l’aviti ?


In conclusione va sicurmente rinnovato l’invito a leggere ‘Le poesie di Licia Pronestì Seminara’,  pubblicato nel 2016 e purtroppo poco o nulla conosciuto nel nostro paese. In esso rivive non solo la vita di Licia, con i suoi pensieri, ma anche molto altro che appartiene all’intimo sentire della gente di Cinquefrondi, e a un pezzo della sua storia recente, e perciò da custodire e narrare alle nuove generazioni.

Licia Pronestì è morta il 3 agosto del 2005 nella sua casa di Gioia Tauro.

Non è possibile copiare il contenuto di questa pagina.