Questa notizia è stata letta 87 volte

                                                                                       Luigi Massara

 

“Alla scuola elementare del mio paese natale, Cinquefrondi, (…) ebbi cinque maestri, uno per ogni anno. (…) Alla quarta classe ci assegnarono il maestro B., famoso per l’alto grado di professionalità e per la ‘cucchjaredha’, un mestolo nuovo, dal lungo manico, con cui dava colpi sulla mano a coloro che non studiavano o facevano continue monellerie. Gli subentrò in quinta il maestro P., che abitava di fronte alla cantina di mio padre in via Montebello: un tipo alto, dal viso torvo, che non rideva mai e per questo faceva paura tanto da pregare per non incontrarlo in paese. 

Una mattina ci controllò i compiti, ma io non trovai il quaderno nella cartella. – L’ho dimenticato a casa – gli dissi. E lui: – Vai a prenderlo e portalo qui al più presto, altrimenti ti faccio vedere io! Essendo stato un insegnante, un educatore, quando ci penso, mi vengono i brividi. Pensate che avevo appena nove anni. Uscii dal portone e mi misi a correre lungo la stradina in salita del centro storico, che dal Rosario porta in Via Milazzo. Fuori il tempo era nuvoloso e faceva freddo. A casa non trovai il quaderno – quel giorno ci si mise di mezzo sicuramente il diavolo -, e quando, tornando a scuola col fiatone, glielo dissi, non mi credette. Mi strinse con le dita il pomo d’Adamo e mi fece molto male. Quando torno con la mente al passato e ricordo quell’episodio, mi pare di sentire ancora quel dolore” . 

 

Ho letto più e più volte questo brano di Luigi Massara, poeta, scrittore, studioso di linguistica e delle tradizioni popolari nato a Cinquefrondi il 26 febbraio del 1941 e morto alcuni anni fa a Maropati, dove da tempo viveva con la sua famiglia.

L’ho letto con passione e gusto, perché è scritto meravigliosamente, ma anche con dispiacere. L’ho riletto per calarmi nella psicologia di un bambino che a scuola si scontra con la parte peggiore del mondo dei grandi, ricevendone un segno che si porterà dietro per l’esistenza. Come accaduto appunto a Massara.

Il brano fa parte di una raccolta di scritti di quest’uomo dal carattere schivo e discreto, oserei dire quasi silenzioso, nascosto dietro grandi occhiali, che però amava grandemente la letteratura, lo studio e la cultura locale, e che per tutta la vita fece il professore di lettere.

 

L’esistenza di Luigi Massara non fu facile fin dall’inizio, perché rimase orfano di padre a 9 anni, proprio quando il maestro con un gesto ignobile lo feriva nel profondo. Un orrore indicibile, un dolore sanguinoso, dal quale però è nato qualcosa di buono, di molto buono. 

Anche a causa di quella umiliazione ricevuta a scuola, infatti, il piccolo Massara sviluppò una sensibilità straordinaria, che fece di lui un uomo buono e misurato, un intellettuale attento ai grandi temi della vita e della morte, ma anche alle  minuzie, ai piccoli segni, ai rapporti umani, quelli che possono spingere verso l’alto o gettare nella polvere, che esaltano o umiliano un essere umano. 

La madre amatissima, con grandi sacrifici (gestendo la cantina che era stata del papà) allevò Luigi insieme con il fratellino Antonio, e lo fece studiare fino alla laurea in Lettere. 

Mamma e figli vivevano in una casa all’angolo fra il Corso e via Milazzo, come dire nel cuore del paese. E il sapore di quel luogo, con tutte le suggestioni del centro storico, e di una Cinquefrondi antica, popolare e popolana, fu sempre nei pensieri e nelle opere dello scrittore.

Il prof. Massara ha scritto e pubblicato molte cose, poesie in italiano e in dialetto,  un romanzo-saggio, un lungo poemetto, uno studio linguistico molto accurato sul dialetto cinquefrondese, una importante e accurata trilogia sui proverbi e i modi di dire calabresi. Per non farsi mancare niente, Massara furoreggiò a lungo in età giovanile anche nella realizzazione di farse carnevalesche rappresentate in pubblico e altre opere di genere satirico-umoristico di stampo popolare. 

 

Lampi di umanità e di sofferenza si trovano invece nelle storie brevi che in anni più recenti Massara ha messo nero su bianco, in forma di ricordi e memorie, senza mandarle mai in tipografia. 

A leggerle si scoprono perle letterarie di rara bellezza e squisita sapienza. Si coglie la tenerezza dell’uomo quando rivede la sua storia in quella di una vicina di casa, rimasta improvvisamente vedova con due bambini, esattamente come capitato a sua mamma anni prima. C’è compassione e condivisione di un destino comune, grande simpatia umana in Massara, che scrive di queste cose con soave delicatezza, senza nascondere mai il grande vuoto lasciato dalla scomparsa repentina del padre e il legame fortissimo con la mamma che affrontò con grande dignità un destino avverso e ingiusto.

Nelle poche righe di ogni singolo componimento Massara racconta un mondo, con le sue meraviglie e le sue disumanità. E c’è spazio anche per lo stupore di trovare nella bibliotecaria di Cinquefrondi Alessia Bono una persona attenta e gentile che si preoccupa davvero dei libri e di quanti vanno a richiederli, ma che è stata inspiegabilente rimossa dall’incarico. 

Altrettanto stupore lo scrittore manifesta di fronte alla ‘scoperta’ dell’abissale ignoranza di un assessore alla cultura cinquefrondese che un giorno, con disarmante candore, affermò in sua presenza di non conoscere nessun’altro di Cinquefrondi, a parte il poeta dialettale Pasquale Creazzo, che avesse scritto qualcosa. Massara avrebbe potuto offrire a questa persona un corso di aggiornamento rapido, a partire dalla sua ricca produzione tutt’altro che banale, e avrebbe potuto indicare anche diverse altre persone che avevano pubblicato belle cose. Ma non lo fece, il suo stile riservato, scevro da polemiche inutili, e la sua tendenza a non mettersi mai in prima fila, gli fecero decidere di interrompere con educazione quella conversazione imbarazzante, e andarsene per la sua strada, sconcertato.  

L’educazione, la gentilezza, il rispetto assoluto per gli altri, il gusto di fare bene le cose, erano considerati da Massara valori fondamentali, senza i quali tutto si guasta, anche le cose gentili della vita di paese, quelle che scaldano il cuore, le amicizie, i vicini di casa, gli odori delle strade. Ma è un equilibrio delicato, fragilissimo, basta poco a rovinare tutto. L’autore ne è consapevole e nei suoi scritti spesso fanno capolino recriminazioni nostalgiche su questo tema. 

La prima pubblicazione di Luigi Massara fu ‘Nu sonnu stranu’, un poemetto dialettale uscito nel 1981, in cui il protagonista Peppi sogna di fare un viaggio nel regno di Cinquefrondi in compagnia dell’Arcangelo Michele, calato dall’alto quasi per mostrargli la catena di vizi e di storture, a cui si lega la vita di quegli abitanti. Massara non fa mai nomi, ma molte vicende paesane e molti personaggi del tempo sono ben riconoscibili in quei versi a volte ironici, a volte sapidi, spesso divertenti. Mutuando lo stile dantesco,  il professore fa compiere al suo personaggio una ricognizione nei luoghi e nell’anima di Cinquefrondi, attraverso figure pubbliche che ne impersonano pregi e difetti.

Pochi mesi dopo viene dato alle stampe uno studio di linguistica intitolato: ‘L’aspetto fono-morfo-sintattico e lessicale della lingua di ‘Nu sonnu stranu’, una sorta di documento sulle norme grammaticali del dialetto di Cinquefrondi e degli altri paesi della piana di Gioia Tauro. Con il pretesto di aiutare il lettore a comprendere il dialetto usato per il suo poemetto, Massara ha in realtà scritto un libro molto utile per gli studenti e gli appassionati di cose dialettali e una fonte di studio anche per migliorare l’uso della lingua italiana.

 

 

Nel 1982 Massara arriva il libro di liriche intitolato ‘Lu tempu vola’, una raccolta di sonetti dialettali, i cui motivi ispiratori “riemergono dal fondo della memoria, col magico sentore delle favole antiche, e si affacciano alla ribalta del nostro tempo, recandoci il genuino messaggio di un’età e di un’epoca irripetibile”, come disse e scrisse lo stesso autore presentando il volumetto: un mondo di cose sopite che rivive in un’onda di commozione e di rimpianto. 

Fra le tante poesie ce n’è una che mi ha colpito in modo particolare, s’intitola ‘La ciangiuta’ ed è un inno d’amore per la sua mamma, di cui Luigi ricorda i frequenti pianti dopo la morte del padre:

Ti viju tantu tristi stamatina. /

Chi tti facisti ? forzi na ciangiuta / 

di chidhi chi tti fai sempi a la muta, / 

prima mu vai pemmu apri la cantina ? /

Lu sacciu ca perdisti lu maritu /  

e cca restasti sula mu cumbatti, / 

ma DDeu no’ mbeni mai menu a li patti, / 

affriggi e nno abbanduna, è garantitu. /  

Coraggiu, mamma, no’ tti dispiaciri ! / 

Ci simu nui cca mu t’aiutamu, / 

e ppoi avimu puru di crisciri, /

tanti soddisfazioni mu ti damu. / 

Avanti, mamma, smetti di ciangiri, / 

pigghia li chiavi, è ura pemmu jamu !

Struggenti parole il poeta Massara dedica anche al padre, perso quando era un bambino. La poesia s’intitola semplicemente Papà e racconta l’infinita nostalgia per questa parola che lui non aveva potuto pronunciare, con tutto ciò che ne consegue in termini di solitudine e senso del vuoto:

No’ mmi ricordu mai chista palora, /

pecchì moristi quand’era cotraru. / 

Eu la sentia di l’atri sempi fora, / 

ma no’ nd’avia ‘nteressi mu la ‘mparu. / 

Di tia ricordu sulu la cantina / 

e ‘ntra li vrazza l’urtima abbasata; 

doppu, ciangendu, arretu a nna tendina / 

comu passavi mortu ntra la strata. / 

Criscimmu senza mu ndi manca nenti, / 

grazzi a lu vinu russu ed a la sola. / 

La mamma ndi mandau puru a la scola. /

Mo l’aju notti e jjornu ‘ntra la menti / 

pecchì li figghi mei ogni mmumentu / 

mi chiamanu -Papà ! – pemmu li sentu.

Nella lirica che dà il nome al libro, Lu tempu vola, Massara esprime per intero la sua ansia del tempo che passa, c’è il ricordo della giovinezza ormai andata e con essa dei giochi che un tempo praticavano i ragazzi, giochi peraltro oggi quasi del tutto spariti. Questi versi dunque hanno anche il merito di ricordare in che modo genuinamente si divertivano i ragazzini in un tempo lontano, e poi l’arrivo dei primi amori:

‘Na vota l’annu, quandu ndi ‘ncontramu / 

cu’ ccorchi amicu cca o a lu mari, / 

a mmenz’a l’atri cosi ricordamu/ 

la vita di quand’eramu cotrari./

Quantu jochi facemu!: a mmucciatedha, / 

a llibaru, a li carti, a lu palluni, / 

a sbatti, a lu piroci, a li lignedha /  

sutt’a lu cafiu e ffora a lu puntuni. /

Doppu, chhiu randi, l’anni di la scola, / 

quandu arriva l’ura di guardari / 

e ndi ndi jemu appressu a la figghiola. /

Dassavamu li sordi di cuntari. / 

Comu passa lu tempu, comu vola, / 

e arretu non si poti cchiu ttornari !

Nel 1990, 1996 e 1999 il prof. Massara pubblicò in successione i volumi della trilogia sui modi dire e i proverbi calabresi dedicati alla famiglia, all’agricoltura e ai vizi e le virtù. Nel primo l’autore sottolinea l’amore verso la natura e la propria terra di origine, in cui si ascolta – a volerla comprendere – l’ansia e il respiro degli antichi padri, il dramma e la sofferta poesia d’una esistenza vibrante di insostituibili valori. Nel secondo, Massara puntualizza ed esalta l’amore per la terra, nella quale affondano le loro radici i valori della semplicità schietta, della continuità storica dell’uomo e del suo modo autentico di essere e di porsi in relazione con gli altri e con l’Eterno. Infine, il terzo volume nasce da una meticolosa ricerca sui valori, le frustrazioni e la forza morale che da sempre guidano il duro cammino della società calabrese.

Altre liriche in italiano, il romanzo saggio ‘Da Quarto al Mesima’ e altri scritti compongono il mosaico produttivo di quest’uomo che ha scelto di vivere quasi nel nascondimento, lontano dai clamori e dagli eccessi. 

 

 

Con signorilità incassò delusioni, il suo talento non fu riconosciuto come meritava, soprattutto nella sua amata Cinquefrondi, dove in nessun modo le sue opere vennero apprezzate e diffuse come invece avrebbero meritato, specie fra gli studenti ai quali avrebbero fatto bene. Eppure per, e sul, dialetto cinquefrondese, Luigi Massara ha scritto cose di valore, con un retroterra culturale di grande spessore. Ha pagato con l’anonimato anche la sua ritrosia a farsi coinvolgere dalla giostra della politica e delle ideologie, e delle bandiere di parte da sventolare. 

Il professore fu dispiaciuto e mortificato ma non per questo smise di amare il suo paese, e nel suo zibaldone non mancò di riferire che “ogni tanto ritorno a Cinquefrondi e vado ‘solo e pensoso … a passi tardi e lenti’ a visitare i luoghi dove fioriscono i ricordi: Via Milazzo, il Castello, Largo del Tocco, il rione Rosario”.

                                                                CINCRUNDI

Di paisi ndi vitti a morimamma, / puru luntanu di ‘sta terra ‘ngrata, / ma nc’èni unu chi doppu la mamma / eu tegnu ‘ntra lu cori a ‘na ripata.

Cincrundi: Via Milazzu, lu Rosarriu, / lu Corsu, lu Castedhu, lu Giardinu, / la Chjazza, la stazzioni, lu Carvarriu, / Santamaria e lu Burgu ch’è bicinu.

‘Nu paisi chi tanti foresteri, / doppu chi lu vìttaru, ammagaru / e puru la mugghjeri si trovaru.

Ed eu ch’era cca finu avanteri, / immaginati chidhu chi borria:/ La luntananza è ‘na malatia…

Non è possibile copiare il contenuto di questa pagina.