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La professoressa Rosanna Giovinazzo, sangiorgese di nascita ma ormai da decenni cinquefrondese acquisita, poetessa e autrice apprezzata, ha scritto di recente un racconto intitolato ‘Mio padre’ (il prof. Luigi Giovinazzo, scomparso nel 1983, ndr). Con questo scritto ha partecipato al concorso indetto da Historica edizioni fondata nel 2008 da Francesco Giubilei che ha sede a Cesena. Il lavoro della professoressa è stato prescelto per la pubblicazione in un’antologia di Racconti Storici che raccoglie le opere migliori che hanno partecipato al concorso.
“Il mio racconto -ha dichiarato Rosanna Giovinazzo- è stato selezionato e racchiude la storia di mio padre, fiero antifascista. L’ho scritto in occasione della presentazione pubblica della sezione ANPI di Cinquefrondi di cui è presidente Alfredo Roselli e di cui faccio parte”.
La bellezza di questo lavoro di Rosanna Giovinazzo sta, oltre che nella scrittura piacevole e asciutta, anche nella tenerezza e nell’amore con cui ricorda il genitore scomparso. La figura del padre di questi tempi viene spesso messa in discussione per tani motivi, eppure il legame padre-figlio è quanto di più inossidabile possa esserci: cosa saremmo senza il legame con nostro padre ? ci definisce come persone più di quanto a volte pensiamo, poi arriva un giorno in cui siamo adulti, quel genitore non è più accanto a noi, e nel nostro animo si fanno strada pensieri e ricordi e delicatezze che forse non ci aspettavamo più. E’ qualcosa che va oltre il rapporto tra una figlia e il padre, è proprio l’incarnazione dell’amore eterno e indissolubile che, nel caso della professoressa Giovinazzo, stavolta si è tradotto in un racconto storico e politico certo, ma soprattutto pieno di dolcezza e di nostalgia per quel papà tanto amato che ora non c’è più, ma continua a esserci nel ricordo e nell’insegnamento.
Di Rosanna Giovinazzo questo sito si è già occupato (chi è interessato a saperne di più, clicchi qui https://www.cinquefrondineltempo.it/rosanna-giovinazzo-la-poetessa-che-accarezza-lanima/ ). Di seguito, per gentile concessione dell’autrice, pubblichiamo il testo integrale del racconto
di Rosanna Giovinazzo
Mio padre amava tanto i libri, ed era un amore ricambiato, perché anche i libri amavano tanto lui. Tutti i libri della sua biblioteca palpitavano di vita, perché avevano un’anima, e con essa interagiva ed interloquiva, scrivendo miriadi di note a lato di ogni pagina. Letture vive, appassionate, persino di testi in latino. Dicevo, i libri lo amavano così tanto, da volergli fare un regalo bellissimo: quando sarebbe giunto il momento del suo trapasso, uno di essi almeno sarebbe dovuto essere presente. I libri, riunitisi in concilio, all’unanimità, decisero per “Le ricordanze della mia vita” di Luigi Settembrini. Mai titolo fu più appropriato! E così quel 15 marzo 1983 in cui il cuore di mio padre ha cessato di battere, il libro che teneva in mano, rimasto aperto alla pagina 115, fu tristemente riposto nella biblioteca, assieme ai suoi fratelli, addoloratissimi per la perdita del loro amico di una vita. Eh sì, le ricordanze della sua vita sarebbero state tantissime, e tutte segnate da gioie e dolori, come per tutti del resto. Ma la sua era stata una vita davvero ricca di tanta tanta dignità e amor proprio.
Aveva sudato tanto mio padre, figlio di un calzolaio, per potersi laureare in Lettere all’Universita di Messina. Del giorno della laurea amava raccontare sempre che lo festeggiò…con un quarto di vino… e qualche etto di carrube… Amava poi raccontare – diceva lui per non dimenticare e rafforzare la memoria – delle sue peripezie durante il fascismo, non gravi perché non subì mai aggressioni fisiche, ma certamente pesanti dal punto di vista morale…
Era una giornata normale, come tutte le altre in paese, ma nel vicolo si udivano vocii e rumori festosi, come da tanto tempo non si sentivano più. Luigi era intento a dar da mangiare alle tortore che, puntuali, ogni mattina si presentavano sul balconcino di casa. La Piazza, con la Fontana Bellissima, era lì a due passi e stranamente, quel giorno, brulicava di persone. Luigi scese di corsa le scale e si precipitò in piazza per capire cosa stesse succedendo. Stavano arrivando i soldati statunitensi! Erano vicinissimi, giù al tornante di Santo Cono! Si vedeva dalla piazza un nugolo di polvere sollevato dal carrarmato dei soldati, che percorreva la strada sterrata. I notabili del paese tutti presenti, pronti ad accoglierli, così pure due loschi figuri che avevano dato filo da torcere a Luigi. Questi ultimi, due fratelli, si aggiravano con fare circospetto e viscido, come anche il loro soprannome indicava: “I lordazzi”.
I lordazzi erano stati, in paese, i delatori al servizio del regime e Luigi, assieme a suo fratello Mommo, maestro elementare, entrambi vicini alle istanze del socialismo umanitario, erano stati presi di mira per la loro avversione al fascismo. Né Luigi, né Mommo chiesero e vollero mai la tessera fascista che sarebbe servita loro per poter insegnare nelle scuole pubbliche, e già solo questo era un segnale importante per i delatori del regime, che li controllavano e li spiavano senza tregua. Per poter vivere, Luigi, che si era acquistata la fama di uomo di vasta cultura, oltre che di fine latinista, impartiva lezioni private anche a domicilio e anche fuori paese e, ogniqualvolta si allontanava, i fratelli “Lordazzi”, che avevano informatori in zona, erano a conoscenza di quanti passi e quante strade avevano percorso i piedi di Luigi.
Erano davvero molto esperti nel fare del male, perché lo facevano in silenzio ed in modo subdolo, tanto che l’anziana mamma, Maria Rosa, era in continua ansia per i suoi figli, temeva, per loro, qualche ripercussione, anche perché, soprattutto Luigi – in paese si diceva – parlava troppo e spesso con gli studenti liceali del paese, ma anche con altri giovani, e questo insospettiva parecchio su possibili proselitismi antifascisti. In realtà, Luigi, amante com’era della filosofia medievale, discettava piacevolmente su Sant’Agostino, Anselmo d’Aosta, San Tommaso d’Aquino e Guglielmo di Ockham, ma per i “Lordazzi” chissà quali diavolerie metteva in testa a quei giovani. Clima difficile e pericoloso dunque, anche in un piccolo paese dell’entroterra calabro. Luigi conviveva ormai con questa sensazione di malessere causata dal sentirsi spiato e dalla continua tensione ed attenzione a non dire o fare qualcosa che lo potesse compromettere.
Giunse il giorno in cui Luigi ricevette la proposta di insegnare Storia e Filosofia in un liceo classico parificato gestito da religiosi, dove non era obbligatoria la tessera fascista, anche se, comunque, una qualche forma di controllo c’era. Luigi accettò la proposta, e siccome il luogo di lavoro era lontano dal paese, si sistemo’ in una pensione e tornava a casa ogni quindici giorni, soprattutto per rassicurare la mamma, sempre in ansia per i suoi figli. Giunse anche il giorno in cui, entrando in una delle sue classi, seduto tra i banchi, assieme agli alunni, vide un signore che, senza troppi preamboli, gli disse: “Professore, buongiorno, sono l’ispettore Arsino, faccia come se fossi un suo alunno, inizi regolarmente la sua lezione”. Quel giorno la lezione riguardava la teoria dell’illuminazione di Sant’Agostino; Luigi, con sicurezza e tono deciso, pur se comprensibilmente pensieroso sul perché di quella visita, iniziò a parlare, dimostrando piena conoscenza dell’argomento. Non aveva ancora terminato la lezione che l’ispettore lo interruppe, gli si avvicinò, gli porse la mano e gli disse solamente: “Professore, continui la sua eccellente lezione e…complimenti!” E se ne andò richiudendo la porta dietro di sé. Luigi non seppe mai, per certo, chi potesse essere stato a mandare un ispettore nella sua scuola per esaminarlo, anche se poteva immaginarlo…Seppe, dopo un po’ di tempo, dai vertici di quella scuola, di cui aveva ormai conquistato la fiducia, che qualcuno lo aveva segnalato “per qualcosa…” ma che l’ispettore aveva apprezzato molto la sua preparazione, tanto da stilare una relazione molto positiva nei suoi confronti. Luigi fece il suo ingresso in una scuola pubblica solo all’indomani della Liberazione e quando parlava delle sue vicessitudini con i suoi studenti sottolineava il fatto che era stato fortunato perché non gli era stato torto un capello, ma che aveva vissuto per anni come stretto in una morsa, e per questo, oltre che per le sue personali convinzioni, era imprescindibile per lui insegnare, prima di ogni cosa, i valori della libertà e della giustizia con riferimenti costanti alla Carta costituzionale costata sangue e sacrificio immani a migliaia e migliaia di Italiani.
Il 27 dicembre 1974, Luigi ricevette l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica a firma del Presidente Giovanni Leone e a
controfirma dell’onorevole Aldo Moro. Ma quel giorno in cui entrarono gli Statunitensi in paese, in prima fila ad agitare le braccia festosamente, c’erano proprio loro: i fratelli Lordazzi…
Mi appresto,con rispetto, ad esprimere alcune personali considerazioni su alcuni punti e alcuni richiami storici del lavoro della professoressa Rosanna Giovinazzo dedicato a suo padre,il professore Luigi Giovinazzo. Lo faccio -metaforicamente – in piedi e con il cappello in mano-. Ognuno può dissentire da persone di elevata cultura, ma lo deve fare con umiltà,rispetto, compostezza,appunto alzandosi in piedi. Il professore Giovinazzo è stato mio insegnante di Italiano nei primi due anni delle Scuole Medie che frequentai, assieme a diversi coetanei cinquefrondesi, a Polistena, a partire dall’anno scolastico 1964/1965. Ho un bel ricordo per il profitto che il professore esigeva da noi alunni e per i risultati che il suo metodo di insegnamento hanno prodotto in me. In terza media l’insegnante fu il professore Borgese, polistenese, del quale conservo pure un bel ricordo. Caratteristico il suo vocione, lo stile romanzato ed evocativo di esporre. Un personaggio, dai capelli e baffetti nerissimi.Un carattere diverso rispetto al professore Giovinazzo, che era più schivo, più semplice, ma altamente interprete del suo ruolo di formatore. La preparazione e il metodo didattico del professore Giovinazzo non lasciava spazio alle inerzie di noi alunni; le fonti culturali ed accademiche a cui egli aveva attinto, erano quelle che negli anni ’20 e ’30 del Novecento formarono il fior fiore di cervelli e competenze che permisero all’Italia di essere maestra in tutto e dappertutto. Non esiste campo del sapere classico, scientifico, giuridico,legislativo, artistico, musicale in cui l’Italia non fu all’epoca maestra. Il professore Giovinazzo non poteva, a sua volta, non essere un maestro. Caratterialmente aveva un atteggiamento un po’ chiuso,riservato e pretendeva che noi alunni ascoltassimo con attenzione le lezioni,che facessimo i compiti a casa, che scrivessimo in rispetto alla grammatica. Solo qualche volta si concedeva e ci concedeva che parlassimo in dialetto. Oggi,compiuti 70 anni,dentro di me è vivo il riconoscimento per quanto mi ha insegnato; è anche merito del suo metodo se, pur non avendo frequentato il Liceo Classico, amo la lingua italiana, parlata e scritta e sono uno strenuo avversario dell’invasione anglofila che l’ha mandata…in ospedale. Ricordo un aneddoto dei tempi della scuola, quantunque io non lo abbia gradito tanto, quando la cosa avvenne. Erano i primi mesi del 1965, avevo 12 anni appena compiuti; mio padre nel mese di febbraio di quell’anno, da che stava bene, fu colpito improvvisamente da un’embolia cerebrale, e fu un disastro per ogni aspetto. Io lo avevo riferito al professore e si dispiacque, ma poi forse se ne dimenticò. Un giorno, seduto al mio banco, ero incupito, intristito. Il professore si rivolse a me a voce alta e mi disse, in dialetto sangiorgese: “Giourdanu, chi nd’hai? Mi pari ‘nu cuccuveju!”
Il “cuccuveju” è una civetta, un corvo che sta rannicchiato,malinconico e per questo non lo presi bene quel suo ammonimento, visto il mio animo, ma poi l’incavolatura mi passò.
Per tornare al personaggio Professore Giovinazzo, credo che per lui l’influenza del suo percorso seminarile – a un certo punto interrottosi – avesse lasciato un’impronta definita in termini esistenziali e culturali. Se si aggiunge l’isolamento conseguente al suo ostracismo al regime, qualche influenza negativa del contesto dell’epoca in un paesino come San Giorgio Morgeto ( a cui sono personalmente legato) si sarà pure manifestata a suo nocumento. Nelle piccole comunità,personalismi,antipatie, a volte anche per motivi gretti, possono generare o accrescere la chiusura e il distacco di un soggetto di alto spessore morale e culturale dall’ignoranza e dalla meschinità. In tale contesto potevano, magari, agire più che esponenti politici veri e propri, personaggi come “i lordazzi” di cui racconta la professoressa Giovinazzo. L’autrice fa cenno, nel suo lavoro dedicato al padre, al suo ideale ispirato a un socialismo umanitario, forse di richiamo cristiano, certamente pacifista, visti anche i suoi trascorsi seminaristi. Ma qui gradirei saperne di più, se magari Egli avesse lasciato qualche scritto in merito, ovvero, se nella sua vita, oltre all’esperienza professionale, culturale, filosofica, avesse prodotto un impegno politico, fatto proposte o azioni socialiazzatrici, umanitarie, benefattrici. Per quanto riguarda il socialismo pacifista, umanitario, vorrei introdurre nell’argomento che nella nostra storia patria circa 110 anni orsono, nel 1914, a mio modesto avviso avvenne che, discordemente a tali teorie, anche Palmiro Togliatti, Pietro Nenni,che poi dirà “…per me, di formazione popolaresca, garibaldina e mazziniana, quella era l’ultima guerra del Risorgimento per completare l’Unità d’Italia”, furono interventisti. E lo furono anche Sandro Pertini,Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini e altri, arruolatisi per combattere nella Prima guerra mondiale. E la missione della guerra non era solamente la sconfitta dell’Impero Austro-Ungarico, ma anche la riconquista delle terre “irredente” del Trentino-Alto Adige, della Venezia-Giulia, di Fiume, della Dalmazia, rimaste sotto il giogo straniero dopo la terza guerra d’Indipendenza del 1866; riannesse all’Italia dopo la Vittoria del 1918, furono perse dopo la sconfitta della Seconda guerra mondiale. Prendo atto che durante il regime fascista al professore Giovinazzo non fu torto un capello e non fu perseguitato – non l’avrebbe mai meritato- ma intese liberamente prenderne le distanze, subendo i pedinamenti dei “lordazzi”. Scrive la professoressa Giovinazzo che questi accolsero osannanti gli anglo-americani arrivati in paese. Aggiungo io, gli invasori anglo-americani, sbarcati in Sicilia il 9 luglio del 1943 (esattamente ottant’anni addietro) con il “placet” di Lucky Luciano e “Cosa Nostra” che ne diressero la preparazione strategica nel traffico marino oceanico su cui avevano una sorta di monopolio.Tutto quanto sopra è documentato storicamente e giornalisticamente. Luciano&CO in cambio ottennero la conquista, ancora mantenuta in coabitazione, con la classe politica,affaristica e massonica della Sicilia. Da allora l’Italia è colonia permanente ed effettiva degli USA e della Nato e il sistema politico vive col patto di alleanza, ancora non rescisso, con Cosa Nostra. Poche settimane dopo lo sbarco, era Agosto del 1943, gli aerei inglesi ci bombardarono a bassa quota per terrorizzare la popolazione civile e fecero 4.000 morti a Reggio e dintorni,devastandoli e un migliaio di vittime civili in provincia. E, i “lordazzi di ogni genere, paese, città,colore, manifestavano giubilo al loro arrivo con sigarette e cioccolate.Pochi giorni prima (il regime era caduto il 25 luglio), il Gen. Pietro Badoglio via radio annunciava testualmente il contrario di quanto sarebbe avvenuto: “La guerra continua accanto al nostro alleato tedesco”. Disse, orgogliosamente e fieramente, la madre di Paolo Borsellino ai suoi bimbi quando gli anglo-americani, entrati in Palermo distribuivano cioccolate a tutti : ” Non vi permettete di accettare neanche un pizzico di quelle ciocccolate, vi rinnego come figli…”
Che donna! Adesso professoressa Giovinazzo -metaforicamente- mi siedo.