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                                                                         Mommo Mammoliti


Era un bell’uomo, Girolamo Mammoliti, detto Mommo. Alto, magro, slanciato, sempre sorridente. Secondo di quattro fratelli, aveva studiato fino a prendere il diploma di perito agrario. Sognava un futuro in un’azienda agricola, magari con un compito di responsabilità. La sua famiglia era di San Giorgio Morgeto, abitavano in campagna, ai Lacchi, una contrada molto vicina al territorio di Cinquefrondi, sopra Ventriconi. E infatti tutti i Mammoliti, sia i vecchi genitori che i giovanotti, si recavano più spesso a Cinquefrondi che al loro paese.

 

Mommo aveva dalla sua l’esuberanza e l’allegria dei giovani, scalpitava come un puledro nella stalla, ansioso di avventurarsi nel mondo e prendersi il suo spazio. Gli piaceva il lavoro, a lungo aiutò i suoi nella piccola fattoria dei Lacchi poi, una volta finiti gli studi, provò a percorrere altre strade, ma senza troppa fortuna. Per un pò di tempo lavorò nelle campagne della famiglia Mammola.


                                               Mommo Mammoliti con la figlia Angelica


Piaceva alle ragazze quel giovane simpatico, con i baffetti e l’aria da cow boy, sempre in giro con la macchina e la sigaretta accesa. Aveva pure una mezza simpatia per una del posto, ma un giorno che andò a trovare il fratello Mico, che aveva casa al rione Torre, incontrò la donna della sua vita: amore immediato, fra questa ragazza semplice con occhi di fuoco e quel giovane sangiorgese.  Furono nozze rapide le loro, e presto arrivò Angelica, una piccina dolcissima, una bambolina gentile sulla quale la vita ha scaricato montagne di sofferenza, dopo averla accarezzata con le coccole più dolci che un padre può riservare alla sua bambina. Coccole mai più dimenticate. 


Mommo Mammoliti


“Mi portava a vedere i cavalli e fare un giro con la carrozza” racconta oggi Angelica, sottolineando che i cavalli sono l’unico animale che riesce a toccare. “Forse per la dimestichezza acquisita in quei giorni felici” spiega.

La famiglia viveva a Novi Ligure, all’inizio degli anni ’70 Mommo aveva scelto la via dell’emigrazione e raggiunto alcuni familiari che abitavano già lì. Per il lavoro, a Cinquefrondi non c’era futuro. A quella bambina il cow boy dei Lacchi riservava mille premure: lei aveva qualche carenza di proteine, e lui “tutte le sere tornava a casa dal lavoro portandomi un uovo; spesso tirava fuori dalla tasca un sacchetto con i ‘baci di dama’, biscottini di cui ero ghiottissima” racconta Angelica. 

Quel papà affettuoso e sempre scherzoso la faceva impazzire di gioia, con lei giocava e si divertiva. Mommo in Piemonte non lavorava da perito agrario come avrebbe voluto, ma era contento del suo lavoro di operaio in una ditta edile nella quale erano impiegati anche alcuni parenti. 


La famigliola era felice, in quella terra lontana da Cinquefrondi e dai Lacchi, Mommo era riuscito a ritagliarsi uno spazio per il futuro. La casa era piccola ma accogliente, lo stipendio a fine mese sicuro, e pure i contributi per la pensione. Cose inimmaginabili nella Cinquefrondi di quegli anni (e forse pure di oggi).

Poi d’improvviso la tragedia.

Cosa ricordi di quei giorni ?  “Avevo quattro anni, racconta Angelica, ora 49enne, ero troppo piccola e sul momento non capii nulla. Mi resi conto che papà non c’era più un giorno che mi portarono a casa dei nonni, ai Lacchi. Mi addormentai e al risveglio trovai lì vicino un grande cane bianco, che dormiva. Mi fece paura, anche se era buono e silenzioso, e chiesi subito di papà”.

Angelica pesa le parole e fruga nella memoria, per scovare ogni particolare di quei giorni terribili. “Dov’è papà ? chiesi alla nonna, ma la risposta fu evasiva e generica, poi lo chiesi a un mio zio, ‘non c’è, non c’è più il tuo papà’ fu la risposta; io lo cercavo, ma non lo trovavo da nessuna parte, poi mi chiusi nel silenzio. Dalla sua morte erano passati pochi giorni”.

Così la piccola Angelica seppe o intuì che suo papà non l’avrebbe più rivisto.

La tragedia avvenne il 7 marzo 1977 ad Avolasca, vicino ad Alessandria. A Cinquefrondi quel pomeriggio si scatenò un certo trambusto, si vociferava di un grave incidente sul lavoro a operai cinquefrondesi, in Piemonte. Le notizie erano scarne e imprecise, inoltre ci sono tantissimi cinquefrondesi in quella regione. Non esistevano i telefonini. 


Veduta di Avolasca (Alessandria), il luovo dell’incidente sul lavoro avvenuto il 7 marzo 1977, che costò la vita al 27enne Mommo Mammoliti



Al Rione Torre l’unico telefono era in casa dei miei genitori, e la notizia della tragedia passò proprio da lì. Verso sera infatti arrivò uno squillo, rispose la maestra Bianca. Poche parole con la persona all’altro capo del filo. Lei si affacciò davanti alla porta di casa, dove stazionavano tanti che avevano familiari in Piemonte. Fra essi mastro Mico, il forgiaro fratello di Mommo, e i suoceri di questi. La maestra Bianca passò invece la cornetta a Turi Longo, un vicino di casa, amico di tutti nella strada. “Mommo ha avuto un incidente, è molto grave, ha bisogno di sangue” disse Turi poco dopo. E invitò gli uomini di famiglia a prendere il primo treno per il Piemonte. Longo in realtà sapeva che Mommo era morto sul colpo ma non se la sentì di dare quella notizia brutale, prese tempo per preparare i familiari. Come fai a dire su due piedi che è morto un amico, un giovane, un papà partito da casa in cerca di lavoro ?

Quel giorno di 45 anni fa, il giovane Mammoliti era impegnato  a realizzare un piccolo terrapieno in una villetta. Al lavoro con lui c’erano il cognato Antonio Zangari, il fratello di questi Pietro, e altri. Mommo e il cognato  si trovavano  in una specie di fosso, dentro al quale una betoniera doveva scaricare del cemento vivo, necessario per fare una parete di contenimento del terreno sovrastante.  Alle 16.30 il camioncino betoniera andò in retromarcia per versare il cemento, ma il terreno dove si trovavano gli operai cedette improvvisamente sotto il peso dell’automezzo, tonnellate di detriti franarono addosso a Mommo, uccidendolo. Antonio era qualche metro distante e se la cavò con poche ferite e un forte stato di shock. 


Quel giorno segnò uno spartiacque nella vita della famiglia Mammoliti, fra il prima e il dopo. La moglie era incinta del secondo figlio, che nacque pochi mesi dopo e fu chiamato Girolamo come il papà. Ma i sogni di futuro, la felicità di quella famiglia erano stati sepolti sotto la frana maledetta in quel paese dell’alessandrino.  E andavano ricostruiti daccapo. Nell’incredulità di un evento certamente evitabile e nello sconcerto che sempre suscita la morte di un uomo impegnato sul luogo di lavoro. Un fatto che cambia i destini anche di chi sopravvive, e spesso li travolge. 

Fra lacrime infinite e la necessità di guardare avanti, e i successivi dissapori con la madre, Angelica cresce in fretta con il fratellino accanto. “Papà mi mancava tantissimo, è stata una vita triste senza di lui, con un vuoto grande, anche se avevo intorno tanti amici e vicini di casa che mi volevano bene, e cercavano di non farmi pesare la situazione. La mia amica del cuore Barbara (ndr, Dattolo), inseparabile, è stata preziosa, mi diceva sempre ‘tu fai parte della nostra famiglia’, suo papà Totò ci portava al mare. Mi aiutavano molto, facevamo i compiti insieme, mi sentivo vicino a loro più che ai parenti. Vedevo in loro la famiglia perfetta”. 


 Angelica Mammoliti con il fratellino Girolamo in una foto di oltre 40 anni fa



Ti sei mai chiesta perché sia capitato proprio a te ? “non ho mai accettato quello che è accaduto, dentro di me l’ho sempre rifiutato. Poi comunque c’era da affrontare la vita di tutti i giorni. Mia nonna quando avevo fra i 9 e i 15 anni, mi chiedeva di preparare da mangiare per mio fratello. Forse voleva aiutarmi a crescere, sapendo che lei era anziana, affinchè un giorno non avessi bisogno di nessuno. Ma io ero solo una bambina e soffrivo molto. Dovevo prendermi le responsabilità di una grande. Così cucinavo, lavavo i panni, tenevo in ordine la casa”.


Mammoliti durante il servizio militare


“Di quanto mi mancasse papà non parlavo con nessuno, nemmeno con i miei nonni paterni, che andavo a trovare ai Lacchi. Mi piaceva stare con loro, ero felice. Ma di papà non parlavamo mai, e io non chiedevo. Da grande invece ho voluto saperne di più.  A volte non credevo fosse davvero morto. Forse perché non avevo vissuto il suo funerale. Il mio vero papà in tutti quegli anni difficili è stato nonno Salvatore. 

Nonostante tutto, con gli amici ero tranquilla, loro mi davano voglia di vivere, frequentavo la parrocchia, cantavo nel coro della chiesa. Dovevo trovavo la forza ?  forse nella preghiera”. 


Angelica con il marito Giuseppe Ierace e le figlie Elisa e Cristina



“Mi immagino -prosegue Angelica- che la mia vita giovanile senza l’incidente di papà sarebbe stata migliore. Mi piaceva la scuola. Ma non ho finito gli studi, dovevo occuparmi della famiglia. Mi sono fermata alla terza ragioneria. Il mio sogno era avere una famiglia mia, che in fondo non ho mai avuto”. 

Ma le cose non possono andare sempre male, c’è sempre una speranza: Angelica è diventata grande, ha incontrato Giuseppe, si sono innamorati: “con Giuseppe mio marito abbiamo costruito una bella famiglia, le mie figlie sono serene, si sono diplomate, hanno cominciato a fare qualche lavoro. Sono felice ora, nonostante il passato”. E’ una donna forte e coraggiosa Angelica, passata attraverso mille battaglie personali e familiari, e altre sofferenze private che l’hanno segnata nell’anima, ma non le hanno impedito di diventare la tenera mamma e moglie che è diventata.


E adesso ? “spero di diventare nonna, di allargare la mia famiglia, magari di trovare pure un lavoro che mi dia un pò di soddisfazione. Ho provato a lavorare, ho fatto dei corsi, pure alla clinica, ma poi non mi hanno chiamato. Non ho avuo fortuna, ma io ci spero sempre”.

Mommo Mammoliti riposa nel cimitero di Cinquefrondi, vicino ai suoi genitori, in una tomba semplice come semplice è stata la sua vita. 

Il titolare della ditta per la quale lavorava è stato processato dal tribunale di Alessandria e condannato a una pena di 4 mesi e 15 giorni con la condizionale, cioè senza nemmeno andare in carcere, nonostante l’assenza di precauzioni che fu alla base dell’incidente mortale.

Il cow boy dei Lacchi andato al nord in cerca di un futuro e di benessere per la propria famiglia, il giovanotto che portava tutte le sere un uovo alla sua bambina, aveva soltanto 27 anni quando fu sepolto da tonnellate di terra e pietre e concluse lì la sua vita terrena. Ma vive ancora nel ricordo di chi gli ha voluto bene e soprattutto di Angelica, che pur a distanza di quasi mezzo secolo ha conservato la dolcezza di una bimba e oggi ha accettato di raccontare la tragica storia del suo amato papà che una mattina del 1977 andò al lavoro e non fece più ritorno a casa.

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