Questa notizia è stata letta 131 volte

Prima di morire sulla croce, Gesù pronunciò sette parole o brevi frasi. E’ il momento più drammatico nel racconto evangelico.  Mentre si trovava sanguinante, con i chiodi conficcati nelle mani e nei piedi, appeso alla croce, sette volte dunque Gesù parlò ancora. Intorno una folla vociante, e nei pressi anche sua madre e l’apostolo Giovanni. Un evento che conosciamo a memoria e che ogni anno si rinnova uguale a sè stesso,  nella nostra Chiesa del Carmine attraverso il rito dell’Agonia. 


L’altare dell’Agonia con le ftre croci e le sette candele, che vengono spente una per volta man mano che le parole di Gesù vengono pronunciate


A Cinquefrondi l’Agonia di Gesù accade e riaccade ogni anno: quando nel primissimo pomeriggio del venerdì santo un  gruppo di fedeli si raccoglie, per pregare e ascoltare quelle sette parole e il breve commento che ne fa il predicatore di turno, un percorso che conduce dritto all’ora nona indicata dal Vangelo, che corrisponde alle tre del pomeriggio, cioè quella in cui il Signore morì. 


Dopo la settima parola di Gesù, viene spenta l’ultima candela: Cristo è spirato


L’Agonia non è una messa, nè uno spettacolo celebrativo. E’ la memoria collettiva delle ultime ore che hanno preceduto la morte di Gesù. Il sacerdote commenta le parole del Vangelo e il coro intona canti originali, per la maggior parte scritti e musicati da artisti locali. 

Comincia la deposizione


Sull’altare davanti a una scenografia che ritrae le tre croci, cioè quella di Nostro Signore e quelle dei due ladroni, ci sono sette candele accese. Ne viene spenta una dopo che ciascuna delle sette parole è stata pronunciata. Quando anche l’ultima candela viene  spenta, è il momento in cui Cristo spira. I fedeli si inginocchiano, c’è chi non trattiene la commozione, dopodichè due novelli Nicodemo e Giuseppe di Arimatea provvedono alla deposizione della grande statua di Gesù che viene posta su un lenzuolo bianco davanti all’altare. 

La deposizione


L’agonia è il momento della tristezza e dell’attesa. Il solo ripercorrere le sofferenze patite da Gesù rianima un dolore antico eppure sempre nuovo e mai fine a sè stesso, perchè quel dolore porta con sè anche la speranza e la forza della Resurrezione. 


Fedeli in fila per il bacio alla statua che rappresenta Cristo deposto, 2018


Questo momento religioso ha una forza emotiva straordinaria, non di rado ci sono persone in lacrime, che silenziosamente partecipano intimamente all’agonia di Gesù fino a farla propria. Talvolta c’è chi non comprende l’importanza e solenità del momento, e giudica  quelle lacrime come un fatto folkloristico, di vecchine che si emozionano con poco, magari trascinate dalla verve oratoria del predicatore. 

Fedeli in fila per il bacio alla statua che rappresenta Cristo deposto, 2013


Invece c’è tanta fede e sofferenza in quel pianto silenzioso, ci sono secoli di tradizione, l’intera storia di un popolo che condivide  quelle pene e l’insegnamento che da esse arriva: “Sette parole furono pronunciate da Nostro Signore durante la sua passione in croce. Esse sono linfa vitale per noi tutti…Sulla croce non condannò alcuno, non punì alcuno, malgrado tutti i suoi dolori. Egli non venne a condannare, ma a salvare il mondo” ha scritto Shenuda III, patriarca di Alessandria. 

Il coro del Carmine e l’organista Enrico Albanese, 2013


In chiesa, man mano che il rito va avanti, il numero dei presenti cresce. Sembra di essere a un funerale come si usa dalle nostre parti, c’è il morto, la sua famiglia, gli amici e tutte le persone che arrivano alla spicciolata per le condoglianze e omaggiare il defunto. C’è un clima sommesso, si parla a bassa voce, raramente ci sono bambini, e quando ci sono se ne stanno buoni e silenziosi, quasi consapevoli della straordinarietà del momento. C’è spazio solo per la preghiera e l’attesa. 


L’Agonia è una liturgia antica, che unisce preghiere e Parola, riflessione e canti, e silenzio. E si conclude, o forse sarebbe meglio dire si concludeva, con un gesto di devozione popolare che quest’anno a causa del covid (come pure nel 2021) non si svolgerà secondo tradizione, cioè con la lenta e interminabile processione dei fedeli per baciare la statua che raffigura il Gesù deposto. Per motivi di cautela sanitaria infatti non sarà possibile baciare la statua del Cristo. 

Il sacerdote comincia il rito dell’Agonia leggendo le sette parole, a ciascuna delle quali poi segue una riflessione, quindi un canto eseguito dal coro:

La prima parola di Gesù: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”

La seconda parola: “In verità Io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso”

La terza parola: “Donna, ecco tuo figlio!”. “Ecco tua madre!”

La quarta parola: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”

La quinta: Ho sete

La sesta parola: “Tutto è compiuto”

Lasettima parola: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”

Il coro del Carmine nel 2018


 I canti eseguiti dal coro e dai solisti non sono quelli che si sentono comunemente durante le messe, ma fanno parte di un repertorio praticamente sempre uguale da molti decenni. La maggior parte di queste composizioni porta la firma del compositore polistenese Michele Valensise, due sono invece del maestro cinquefrondese Carlo Creazzo. 


Nicola Carrano e Agostino Macedonio


Oggi all’organo c’è il giovane Enrico Albanese, il tenore solista è Agostino Macedonio, il baritono solista è Marco Massara Ferrari, in tempi recenti  anche il noto cantante lirico William Burzese ha prestato la sua voce all’Agonia. Il coro è giovane e magnifico, composto per la maggior parte da ragazze e donne. 

Di questo gruppo di cantori ha fatto a lungo parte Nicola Carrano, popolarissimo ex commerciante e cantante per passione, ma soprattutto uomo mai abbastanza rimpianto. E così pure l’ex agente di polizia Michele Tropeano, pure lui per decenni colonna di quel gruppo di persone impegnate con devozione nel canto religioso. 

Il tenore Michele Longo, il maestro Carlo Creazzo e Alfonso Longo


Un tempo lontano a quella tastiera sedeva nientemeno che il maestro Creazzo, un gigante della musica, un signore nella vita. Lui che aveva calcato palcoscenici importanti, con umiltà e fede sedeva ogni venerdì santo a quella vecchia postazione, per regalare a Dio arte in forma di musica e preghiera. E come lui, dopo di lui, don Remo Anastasi, che non era un prete nonostante il don, e non aveva studiato musica, ma sapeva suonare bene ed era un antico gentiluomo di paese, con i suoi modo sempre affabili ed eleganti. 

Remo Anastasi e Peppino Lococo


Nel coro durante gli anni sono stati in tanti, come si fa a ricordarli tutti ? tocca scusarsi per qualche dimenticanza, ma almeno un paio di loro vengono subito alla mente, Peppino Lococo, l’ex dirigente dell’ufficio fiscale di Polistena, devoto e fedele a tutte le celebrazioni, Michele Longo che fu ufficiale giudiziario in anni lontani, ed ebbe anche una importante carriera da tenore in giro per l’Italia e si dice cantò perfino alla Scala di Milano. E poi ancora Alfonso Longo che cantava e suonava insieme con delicatezza e amore. E altri, tanti altri che hanno fatto grande la tradizione e l’hanno conservata e perpetuata fino a oggi, dopo averla ereditata da chi c’era prima di loro. 

Alfonso Longo e Peppino Lococo


Non c’è più fra quelle navate don Fortunato Sorrenti, per cinquant’anni rettore del Carmine che era la sua casa, e non solo perchè era un sacerdote. La cura, l’amore, la passione che ha messo al Carmine, sono un segno d’amore straordinario, che risalta pensando a quanti luoghi sacri nel mondo sono trascurati e dimenticati o abbandonati o trasformati in birrerie o sale giochi, come se Dio non vi abitasse più. 

Don Fortunato Sorrenti, sullo sfondo, durante la deposizione in una foto dei primi anni ’90


Raramente ha predicato all’agonia il vecchio don Fortunato che per antica consuetudine affidava il compito di raccontare le sette parole a un predicatore esterno. Tradizione proseguita dall’attuale parroco don Serafino Avenoso che ogni anno invita a Cinquefrondi un sacerdote di fuori, spesso uno studioso delle Scritture, per rivivere insieme ai fedeli i momenti finali della Passione e accompagnarli con la riflessione. 

Nel tempo in tantissimi, anche stranieri, si sono alternati sull’altare delle sette parole; in tempi recenti lo hanno fatto anche dei sacerdoti cinquefrondesi che abitualmente svolgono altrove il loro ministero, come don Pasquale Galatà e don Giuseppe Ascone e, in anni assai lontani, anche don Agostino Zangari. Quest’anno don Serafino ha affidato l’assistenza spirituale durante tutta la Settimana santa, e quindi anche la predicazione dell’agonia, a don Cosimo Furfaro, direttore dell’Istituto superiore di teologia e pastorale, della diocesi di Oppido. 

Don Pasquale Galatà, sacerdote cinquefrondese e parroco di Melicucco, predica all’Agonia del 2018


Al termine dell’Agonia, nella chiesa Matrice, intitolata al patrono san Michele, ha inizio una funzione chiamata popolarmente ‘missa a la storta’, il suo nome formale è celebrazione in Passione Domini, l’altare è completamente disadorno, non c’è benedizione, non c’è consacrazione eucaristica. Per la comunione vengono utilizzate le specie eucaristiche consacrate il Giovedì Santo perché in questo giorno, unico dell’anno liturgico, non si celebra la Messa diciamo così normale. 

don Giuseppe Ascone sacerdote cinquefrondese predica all’Agonia del 2013


Questa particolare celebrazione si compone di tre parti, cioè la Liturgia della parola (quindi due letture e il vangelo) alla quale segue la solenne preghiera universale, quindi l’Adorazione della Santa Croce. Quest’anno non ci sarà invece il bacio della Croce, sempre  motivi di sicurezza sanitaria, resta dunque solo il ricordo di una tradizione antichissima, quando si formavano lunghissime e silenziose code per avvicinarsi al crocefisso e baciarlo. 

La statua della Madonna Addolorata con il vestito nuovo realizzato da Giuseppe Zappia, un abito che resta povero ma realizzato con tessuti, tecniche e maestria di grande classe


Con la celebrazione in Passione Domini la liturgia del Venerdì santo ora è nel vivo. La fine della vita terrena di Cristo è stata ormai celebrata. Ci si appresta a rinnovare il pianto e il dolore di Maria. S’è fatto tardi, è l’ora della via crucis e dell’Addolorata. 

Le persone si radunano alle 21 davanti alla Chiesa del Carmine. La statua di Maria a grandezza naturale, vestita a nero, con i lunghi capelli nascosti e con un vistoso pugnale conficcato nel petto, percorre tutto il paese, anche le stradine più strette, accompagnata dalla folla muta; chi non è alla processione, vi partecipa silenzioso da balconi e finestre. 

E’ una Madonna bellissima, dal volto enigmatico e interrogativo, il suo vestito è stato rifatto pochi anni fa per mano di Giuseppe Zappia, un sapiente artigiano-artista cinquefrondese che ha usato stoffe speciali e finiture di rilievo per donare alla figura che rappresenta la Madre di Dio la maestà che merita. 



























Il parroco don Serafino Avenoso e i portatori della statua della Madonna Addolorata prima della processione, 2017


Durante la processione, i più vicini alla Madonna accompagnano il mesto corteo recitando il rosario, altri in silenzio, altri ancora chiacchierando come da consuetudine, mentre la banda suona musiche tristissime. Il venerdì santo è il giorno più brutto dell’anno. Ma poi arriverà la Pasqua. 


Non è possibile copiare il contenuto di questa pagina.