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Salvatore Raso
Alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta al rione Torre viveva un personaggio indimenticabile. Si chiamava Salvatore Raso, ma per tutti era solo e soltanto Sarvu.
Sarvu era un lavoratore come raramente se ne vedono, un operaio instancabile e serio, una persona buona mascherata da uomo burbero e brontolone. Era capace di sfuriate pazzesche se lo facevano arrabbiare, come ben ricordano i vicini di casa e soprattutto gli operai di una ditta che lavorava per conto del Comune. Ciò nonostante i suoi modi erano sempre molto signorili, da antico gentiluomo di paese.
Nel quartiere dove lui viveva c’erano torme di ragazzini, a volte chiassosi e molesti, che giocavano per strada. Lui in qualche modo, e soprattutto a modo suo, li teneva a bada e li proteggeva. Vestiva i panni del nonno del rione e come tale si comportava. A volte premuroso e affettuoso, a volte severo.
Erano tempi in cui tutti tenevano aperta la porta di casa, tutti conoscevano tutti e la confidenza tra le persone e le famiglie era davvero tanta. Quei ragazzini entravano e uscivano dalle case altrui come fossero le proprie, e nessuno se ne meravigliava. Sarvu era uno degli anziani che controllavano da lontano discretamente che nessuno combinasse guai o si facesse male. Ogni tanto si fermava a raccontare storie, o rifilare rimproveri e occhiatacce. A volte bastava uno sguardo, specie quando c’era chiasso sotto le finestre di casa sua, in via Salvo d’Acquisto, e i suoi occhi facevano sì che quei ragazzi se la filassero alla svelta. Lui si divertiva molto a interpretare la parte del nonno di quartiere, e sapeva che quei bambini gli volevano bene per questo.
Salvatore era un uomo alto, spalle larghe, due mani gigantesche indurite dai calli, una grande testa squadrata e una mascella altrettanto squadrata. Camminava stando dritto come un fusto. Aveva un vocione così, da far paura ma in realtà era un tipo assai buono e generoso, uno che aveva la carne consumata dalla fatica del lavoro e dai tanti sacrifici fatti per tirar su la famiglia.
Salvatore per tutta la vita aveva lavorato come bracciante e manovale. Negli anni Sessanta, a causa dell’estrema povertà e per mantenere i suoi numerosi figli, dopo aver lavorato per tanti anni in un mulino, e alla vecchia cartiera di Cinquefrondi che sorgeva vicino allo Sciarapotamo, decise di tentare la fortuna al nord. Visse soprattutto in Liguria, lavorò nel settore minerario e nelle manutenzioni ferroviarie e stradali, e infine in quelle idrauliche. Sapeva fare qualunque tipo di lavoro edilizio e questo lo rese prezioso per tante aziende che se lo contendevano. Per non far mancare niente alla sua famiglia, utilizzava ogni momento libero per lavorare, sacrificando anche il meritato riposo.
Fece anche una breve esperienza all’estero in Francia, poi rientrò in Liguria continuando a lavorare sempre nell’edilizia, infine tornò a Cinquefrondi anche perché intenzionato a portare a compimento i lavori di costruzione della sua casa. Cosa che fece letteralmente con le proprie mani.
Di quell’edificio andava orgoglioso, perché in esso non c’era soltanto tutta la sua abilità professionale o il fatto che ogni rifinitura e ogni mattonella, e ogni misura era stata fatta proprio come lui voleva. Quella casa era soprattutto il compimento della sua intera esistenza, racchiudeva il senso della sua vita e infatti l’amava e la considerava quasi come una creatura. Ogni centimetro di quei muri parlava di lui, tutto era come lui aveva desiderato.
Si spiega anche così la protesta furibonda che un giorno fece con l’ufficio tecnico del Comune e i suoi operai, quando questi ‘sistemarono’ la strada davanti alla porta d’ingresso della sua abitazione: i lavori di pavimentazione stradale, non si sa per quale motivo tecnico, modificarono l’ingresso di casa Raso, che in origine era al piano terra. A Salvatore non andò giù in nessun modo che, dopo i lavori del sindaco, lui dovesse salire diversi scalini per entrare nella sua abitazione. Che razza di lavoro avevano fatto? Raso aveva costruito la sua casa con l’ingresso al piano terra e così l’avrebbe voluta per sempre. Invece dovette rassegnarsi, nonostante le proteste, la voce grossa e i litigi con quelli del Comune, cui un giorno mandò per aria pure mezzo cantiere, non senza la complicità di qualche bicchiere di troppo. Gli operai quel giorno se la videro brutta e se ne andarono via spaventati. Sarvu era una furia, urlava, strepitava, buttava tutti gli attrezzi da lavoro per aria, scagliandoli lontani. Al Comune c’era chi voleva denunciarlo per danneggiamenti, forse pure per interruzione del lavoro pubblico, chissà; ma c’era anche chi comprendeva la rabbia di quell’uomo e sapeva quanti sacrifici avesse fatti nella vita. Tutto fu appianato, lui si calmò, non scattarono denunce, ma sui lavori non ci fu verso di tornare indietro. Gli dissero che la mini scalinata sarebbe rimasta e rimase. Salvatore ingioiò amaro, ma fu disciplinato e non si rassegnò mai ad accettare davvero quello che considerò un inspiegabile sopruso.
C’è un’altra cosa a cui Salvatore non si rassegnò mai, perché lui vi tornava spesso con un tono che colpiva sempre quelli che lo ascoltavano: quando parlava dei suoi lavori di casa, indicava o citava con entusiasmo anche ‘la casa di Iole’. Non era una casa speciale, ma un semplice appartamento. Iole era la sua figlia maggiore emigrata in Australia tanti anni prima in cerca di fortuna. Salvatore, che già era premuroso con tutti i suoi figli, che comunque gli erano sempre vicini e a portata di mano, riservava a Iole un’attenzione speciale, perché era quella andata via in un luogo davvero troppo lontano e praticamente non aveva quasi più rivisto; lui sperava sempre che tornasse definitivamente a Cinquefrondi.
Nei suoi discorsi Salvatore evocava sempre questa figlia lontana, ne aveva una nostalgia infinita, qualche volta è parso di leggere qualche lacrima nei suoi occhi. Quel piccolo appartamento destinato a Iole era la casa del ritorno, il rifugio della sua piccola. Il segno che prima o poi quella bambina sarebbe tornata. Ma in cuor suo Sarvu sapeva che invece non sarebbe mai più tornata, se non forse occasionalmente per una breve visita. Salvatore è vissuto con quel cruccio nel cuore, una vera e propria spina che lo faceva soffrire, avrebbe dato la vita per avere la sua Iole ancora a casa. E come lui chissà quanti altri padri e madri di Cinquefrondi soffrivano per la lontananza di figli e nipoti, ma anche di fratelli e sorelle, che avevano pagato un durissimo prezzo alla mancanza di lavoro nella propria terra.
Quel fabbricato lo rendeva felice anche per un altro motivo, si trovava infatti in via Salvo D’Acquisto. Un nome che ai ragazzi dell’epoca non diceva niente. A Salvatore si illuminavano gli occhi quando citava Salvo D’Acquisto, e gli piaceva l’idea di abitare in una via intitolata a lui, tuttavia mai si preoccupò di spiegare ai suoi ragazzini rumorosi chi fosse quel signore e perché fosse importante. E poi era contento perchè quel D’Acquisto portava il suo stesso nome !
D’Acquisto era un carabiniere che il 23 settembre 1943 fu fucilato dai nazisti in una località di campagna poco lontano da Roma, sulla via Aurelia. Era un vicebrigadiere napoletano, nato nel 1920, perciò quando fu ucciso aveva appena 23 anni. Primogenito di cinque figli, arruolatosi giovanissimo, era al comando della caserma di Palidoro. Lì vicino i tedeschi avevano preso possesso di un vecchio complesso in uso alla Guardia di finanza, nel frattempo sloggiata. Durante un’ispezione di casse di munizioni ci fu uno scoppio accidentale di alcuni candelotti, che i finanzieri aveva sequestrato tempo prima ai pescatori di frodo. Morirono due soldati tedeschi e altri due restarono feriti.
I nazisti lo considerarono un attentato e pretesero dal giovane vicebrigadiere l’arresto immediato degli autori. Lui provò a spiegare che non c’erano attentatori, e che l’esplosione era stata fortuita, ma fu inutile. Il comandante della guarnigione fece arrestare venti cittadini a caso e li costrinse a scavare quella che, di lì a poco, sarebbe stata la loro fossa.
In quei minuti drammatici e interminabili, accadde l’imponderabile: il giovane carabiniere si avvicinò al capo dei nazisti e i due parlarono per qualche minuto, dopodichè in modo inaspettato tutti i gli arrestati smisero di scavare e furono lasciati liberi. D’Acquisto invece fu trattenuto e fucilato, e il suo corpo gettato nella fossa che era stata appena scavata: il giovane carabiniere si era offerto di morire al posto di quei venti uomini innocenti, addossandosi la responsabilità dello scoppio. Un eroe per il quale è in corso anche il processo di beatificazione da parte della Chiesa, essendo egli un fervente cristiano.
Raso conosceva la storia di questo carabiniere e lo venerava, considerava perciò un grande onore abitare nella via intitolata alla sua memoria. Inoltre portava lo stesso nome di battesimo, e anche lui era un cristiano, peraltro devotissimo della Madonna di Polsi. Al Santuario dell’Aspromonte si recò ininterrottamente per 48 anni.
Salvatore mai dimenticò la povertà patita soprattutto da giovane; fin da ragazzino era sempre vissuto nella fatica del lavoro bracciantile, studi non aveva potuto farne, e molto spesso si dovette accontentare del poco che la sorte gli aveva messo davanti. La vita non regalò niente a Sarvu Raso. Ma questo anziché abbatterlo, o avvilirlo, lo rese più forte, e nelle avversità il suo contegno si mostrò sempre all’altezza. Ciò fece di lui un galantuomo d’altri tempi, come se ne vedevano pochi in giro, rispettoso e rispettato. Perfino il suo portamento era da gran signore, come il suo animo.
(Foto Archivio Gerace)
Grazie Feancesco, non sei mancato in nessun particolare .
Grazie❤️ Francesco e bellissimo ricordare il mio caro papà ,lui era così come l'hai riscritto ,però nel suo cuore era una bravissima persona ❤️